Ex Cathedra
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Espressioni e parole da buttare nel 2021

Il 2020 se n’è andato con un carico di dolore, disperazione, cose non fatte, progetti accantonati “per quando si potrà tornare alla normalità”

Parole chiave: Ex Cathedra (34), Lino Cattabianchi (16)

Il 2020 se n’è andato con un carico di dolore, disperazione, cose non fatte, progetti accantonati “per quando si potrà tornare alla normalità”. Sembra una frase fatta, di quelle che tutti ormai usano nei comunicati, negli articoli, nelle dichiarazioni dei politici. E tuttavia ci ritroviamo tutti come in quella storica espressione di Scalfari, a proposito del Pci di Berlinguer, “in mezzo al guado”: si intravvede la riva, grazie ai vaccini, ma la strada per uscire dal pantano e rimettere in moto la macchina è ancora lunga. E così, “un po’ per celia e un po’ per non morire”, il mio amico Roberto Rossin, indimenticabile voce di Radio Montebaldo ed ora impegnato personalmente e senza tregua sul fronte dell’handicap «per far riconoscere a tutti quelli che sono stati bastonati dalla vita (sono parole sue) i loro diritti», ha inventato un gioco. Si chiama semplicemente “Parole da buttare nel 2021”, quasi uno sforzo di adeguamento mentale, dato che il linguaggio nasce nella mente che organizza il pensiero (il lògos) attraverso le parole, alla nuova situazione, quella auspicabilmente senza Covid, senza paure, senza lockdown, con piena riacquistata libertà per tutti. Già: si va dicendo che questa pandemia segnerà un prima e un dopo per tutta l’umanità e che perciò servono parole nuove, al posto di quelle vecchie che ci mantengono nel tepore caldo e rassicurante dell’abitudine linguistica, come se nulla fosse successo.
E allora cominciamo a vedere da vicino queste possibilità. «E se nel 2021 la smettessimo – dice Roberto – di dire “ci sta”, “ci metto la faccia”, “senza se e senza ma” e “due domande me le farei”, “vorrei dire”, “mettiamocela tutta”?». Provocazioni scoppiettanti che ci rimandano al tempo in cui si “portava avanti il discorso”, si faceva qualcosa “nella misura in cui” o si guardava il mondo “nell’ottica e nella prospettiva”. Echi di stagioni geo-linguistiche che risalgono all’era quaternaria dell’espressione pubblica, orecchiata qua e là e finita regolarmente nelle discussioni sulla politica e sul mondo. Riportandoci a quel tempo, era verso la fine degli anni ’70, quando la rivoluzione proletaria sembrava “dietro l’angolo” (e dai!), in un prezioso libretto, ormai introvabile, Il piccolo sinistrese illustrato di Paolo Flores d’Arcais e Giampiero Mughini (Milano 1977, SugarCo Edizioni), Giorgio Bocca nell’introduzione scriveva che il sinistrese (veniva definito così quel sub-linguaggio) “è una rivoluzione verbale immaginata”. “Il sinistrese è questo – sentenziava Bocca – nel bene e nel male: insignificante, confusionario, tautologico, allusivo, un po’ cialtrone un po’ goliardico, un po’ provinciale quando accetta gli ‘aspetta un attimino’, ‘scusa un momento’, trucchi da educande di un secolo fa” (pag. 9). E allora per venire a noi e al nostro tempo, cambiati gli scenari e le parole che li accompagnano, perché non abbandonare un ricco campionario di espressioni che ci vengono ammannite ogni giorno dai nostri politici di tutte le aree? “Territorio”, “eccellenze” (del), “fare squadra”, “sinergia”, “piuttosto che” in sostituzione della disgiuntiva o (Ornella Castellani Pollidori, Accademia della Crusca). Oppure i latinismi, sfoderati da chi magari non sa nemmeno che è esistito il latino: la “questio” (ovviamente senza dittongo) per dire “il problema”. Molti dei nostri esponenti politici, coniugando a dovere queste parole nelle inaugurazioni delle fiere o alle sagre paesane, oramai anche queste a favor di telecamera, ci hanno costruito una carriera. Allora come ora c’è il serio rischio di cadere nella retorica, cioè di abbandonare il legame tra le parole e la realtà. Di immaginare una relazione che vive solo nella fantasia e che ci abbandona in mezzo al guado dell’insignificanza.

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