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La (non) accoglienza di un’Europa mai così divisa

Un mare di neve, freddo e fango: è questo il luogo in cui, per migliaia di migranti, naufragano i sogni di una vita nuova in Europa. Siamo nel cantone di Una Sana, nel nord-ovest della Bosnia-Erzegovina. A pochi chilometri dalla città di Bihac l’impenetrabile confine con la Croazia è presidiato giorno e notte da poliziotti armati di tutto punto

Parole chiave: Dublino (1), Migranti (8), Europa (32), Profughi (10)
La (non) accoglienza di un’Europa mai così divisa

Un mare di neve, freddo e fango: è questo il luogo in cui, per migliaia di migranti, naufragano i sogni di una vita nuova in Europa. Siamo nel cantone di Una Sana, nel nord-ovest della Bosnia-Erzegovina. A pochi chilometri dalla città di Bihac l’impenetrabile confine con la Croazia è presidiato giorno e notte da poliziotti armati di tutto punto. A separare gli accampamenti dei profughi dalla frontiera con l’Unione Europea c’è l’ultimo insormontabile miglio di un viaggio che per molti è iniziato in Iraq, Siria, Pakistan, Bangladesh o Afghanistan, mesi o anni fa.
I migranti hanno iniziato a percorrere la rotta che passa per la Bosnia dopo la chiusura, nel 2018, dell’alternativa balcanica che si snodava attraverso la Grecia: si calcola che negli ultimi tre anni circa 65mila persone siano transitate dal cantone di Una Sana. Oggi il Paese al confine con l’Ue ospita poco più di 9mila profughi, di cui solo due terzi registrati nei cinque campi profughi ufficiali. Le persone che vivono al di fuori del sistema di accoglienza sono circa 3mila: trovano rifugio in ripari di fortuna o in palazzi abbandonati. Nei boschi vicino al confine con la Croazia sono nate tendopoli improvvisate senza bagni, elettricità e acqua potabile. Alle misere condizioni di vita si aggiungono le sofferenze dell’inverno bosniaco: le temperature arrivano a toccare i 20 gradi sottozero e nessuno è attrezzato per difendersi dalla morsa del gelo.
Ogni settimana centinaia di persone tentano di entrare in Croazia ricorrendo a qualsiasi mezzo: c’è chi prova a guadare il fiume, chi si nasconde sotto i camion, chi corre tra gli alberi e chi cerca di mimetizzarsi tra la neve. La polizia di Zagabria pattuglia costantemente la zona usando visori notturni, termoscanner, cani e droni: in meno di un anno sono stati registrati oltre 20mila respingimenti, spesso con metodi brutali. I corpi dei migranti riportano le cicatrici delle violenze, dei pestaggi e delle torture subite. I fortunati che riescono a varcare il confine sono pochi: una volta approdati in Unione Europea, si spostano rapidamente verso l’Austria, la Germania o l’Italia. Spesso, però, proprio quando credono di essere riusciti a coronare il proprio sogno, vengono identificati dalle autorità locali e rispediti indietro, fino al punto di partenza: i respingimenti a catena li fanno ruzzolare di nuovo fuori dall’Europa, in un tragico gioco dell’oca che riporta sempre alla casella dello zero. Nel 2020 il ministero dell’Interno italiano ha ammesso di aver allontanato in questo modo oltre 1.200 persone al confine con la Slovenia.
La crisi umanitaria ora in atto nei campi profughi della Bosnia, distanti poco meno di 300 chilometri da Trieste, è l’estrema conseguenza della mancanza di un sistema di governance efficace dei flussi migratori in Europa. Le istituzioni di Bruxelles non sono finora riuscite a trovare un accordo per garantire una gestione ordinata di questo fenomeno, con ripercussioni disastrose sulla vita di migliaia di persone. L’unico trattato a essere attualmente in vigore è vecchio di trent’anni e inadeguato per rispondere alle sfide di oggi.
La convenzione di Dublino – firmata nel 1990 e poi modificata nel 2003 e nel 2013 – dovrebbe armonizzare le politiche di tutti gli Stati europei sull’asilo, stabilendo quali Paesi sono competenti per l’esame delle richieste e assicurando a ogni richiedente che la domanda venga esaminata nel rispetto della convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Il sistema si fonda sul principio del primo Paese d’arrivo, secondo cui lo Stato responsabile per l’esame della richiesta è quello d’ingresso nell’Ue.
Oggi la convenzione è considerata unanimemente inadeguata per almeno tre motivi: innanzitutto non garantisce adeguata protezione ai richiedenti asilo, spesso costretti ad aspettare anni prima che le loro richieste vengano esaminate; in secondo luogo non tiene conto a sufficienza dei ricongiungimenti familiari tra migranti spesso difficili da identificare; infine pone una pressione maggiore sui Paesi di frontiera come Italia, Spagna, Grecia o Croazia, costretti a sostenere i costi di identificazione e il mantenimento dei richiedenti asilo fino alla decisione definitiva sulle loro pratiche.
Il sistema ha inoltre dato origine al fenomeno dei respingimenti a catena: se gli Stati più sviluppati d’Europa, vera destinazione dei flussi, si accorgono che i richiedenti asilo non sono stati correttamente registrati nel primo Paese d’approdo, li rispediscono indietro, fino al punto di partenza. Si scatenano così conflitti e ripicche tra Stati, il cui peso ricade sulle spalle dei migranti, condotti loro malgrado da un confine all’altro del Continente.
Negli ultimi anni sono state avanzate diverse proposte di modifica della convenzione. Le principali insistevano su un superamento dei criteri attuali e sulla sostituzione del principio del primo Paese d’arrivo con un meccanismo permanente – automatico o volontario – di ricollocamento dei richiedenti asilo secondo un sistema di quote condivise tra gli Stati dell’Unione. A far naufragare le riforme sono state soprattutto l’opposizione dei Paesi dell’Est Europa e la scarsa propensione a farsi carico dei costi dell’accoglienza degli Stati più sviluppati.
L’incapacità della politica di progettare soluzioni alternative, gli interessi di parte e gli antagonismi tra Paesi continuano così a ripercuotersi sul destino di migliaia di migranti. E mentre a Bruxelles si discute sull’ennesima proposta di modifica, a un passo dell’Europa si lotta per la sopravvivenza, tra freddo, fame e condizioni di vita disumane.

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