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Bosnia-Croazia, i confini dell’inferno

Migliaia di migranti stipati in situazioni al limite della sopravvivenza, aiutati solo dalle Ong

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Bosnia-Croazia, i confini dell’inferno

Ha conosciuto le deportazioni e visto migliaia di profughi spingersi verso i confini occidentali, verso un riparo dalla guerra intestina degli anni Novanta che la stava lacerando. Ora è la spalla umanitaria su cui si appoggiano migliaia di persone che a loro volta vengono da est, dall’Afghanistan, dalla Siria e dal Pakistan. La Bosnia sta affrontando sola – come la Grecia nel recente passato – il dramma delle popolazioni sulle rotte balcaniche frenate ora da un rigido inverno. E in prossimità del confine con la Croazia, a neppure sei ore d’auto da qui, si alza un appello disperato di aiuto, sinora inascoltato dalla politica i cui riflettori sono orientati sulla pandemia, sulle crisi di Governo o sul cinematografico passaggio di consegne presidenziale degli Stati Uniti d’America.

Eccole allora le cartoline del 2021: è rimasto un perimetro nero e un’accozzaglia di baracche coperte di neve del campo profughi di Lipa, vicino a Bihać, andato a fuoco all’antivigilia di Natale. Qui mille persone si riparano sotto teloni e nylon e tra gli alberi del bosco che separa la Bosnia dalla Croazia.

Afghani, pakistani e mediorientali sono diretti in Europa, in Francia, in Germania o al Nord. Il loro cammino, iniziato qualche anno fa, è congelato dal freddo in un limbo senza coordinate temporali, sotto la neve e nel fango. Tra i crocchi di adulti davanti a un bidone con del fuoco, girano molti bambini infreddoliti, con un maglione lavorato chissà da chi e giunto chissà da dove o una coperta sulle spalle che fa loro da mantello. Sono una quarantina i piccoli seguiti in un altro centro, dall’altra parte della Bosnia, a Doboj Istok dal forum della solidarietà Msf-Emmaus, che segue i profughi anche a Kladuša, altro centro al confine nord ovest con la Croazia, a tre ore d’auto da Trieste.

Sinora hanno puntato i riflettori sulla situazione drammatica la Caritas italiana (quella ambrosiana ha avviato una raccolta fondi e acquista in loco bancali di legna, ma anche calzettoni, abiti pesanti e scarpe invernali) e alcune associazioni che devono, però, affidarsi alle Ong per poter inviare vestiti e coperte senza la certezza che arrivino a destinazione: c’è chi viene fermato al confine con la Croazia e l’ingresso in Bosnia è ostacolato dal Covid e dalle procedure anti-contagio.

«I mille profughi nel campo di Lipa a Bihac dormono nei tendoni che l’esercito ha montato dopo l’incendio e dopo che per tre giorni le persone hanno dormito all’aperto», racconta Lejla Mešić, 31 anni, di Emmaus Bosnia che passa da un campo all’altro girando il Paese in lungo e in largo. «Nei primi tempi i profughi non volevano andare nei tendoni perché non avevano riscaldamento, elettricità e acqua. Dopo una settimana di proteste, durante la quale hanno rifiutato anche il cibo, la situazione è rientrata e i profughi hanno iniziato a usare le tende. Nel frattempo sono arrivati riscaldamento ed elettricità, ma i bagni e l’acqua sono ancora un problema: si lavano nei fiumi».

Mešić, che a tre anni ha conosciuto la guerra dei Balcani e il profugato in un centro della Croce Rossa a Jesolo nel 1992, oggi con la sua organizzazione consegna ai profughi pasti, giacche, sacchi a pelo e prodotti per l’igiene. Va in sopralluogo per i campi e vede le necessità e cerca di provvedere. Ma è difficile aiutare da lontano inviando materiale perché la strada non è facile: «Sono andata a Medugorje attraverso l’organizzazione “A Braccia aperte” e l’associazione “Regina della pace” che ci hanno inviato tante cose, ma per ora una raccolta fondi sarebbe meglio», spiega. Emmaus col denaroa cquista alimentari, calzettoni e abiti dalle attività del posto, sostenendo così anche l’economia locale. 

«Vorremmo aprire un centro diurno a Velika Kladuša. Ne abbiamo già uno a Tuzlada un anno e poi c’è il centro in cui accogliamo 40 minorenni profughi a Doboj Istok dal 2016». Con lei lavorano diversi volontari che cercano di barcamenarsi tra la crisi politica ed economica della Bosnia, e la sordità delle istituzioni internazionali. «Se il campo di Lipa esistesse ancora, nessuno avrebbe badato a questi poveretti, né il governo qui né le organizzazioni straniere. Questi profughi vogliono entrare in Italia, Germania, Olanda... – raccontano dal- la tendopoli –, ma questi Paesi chiudono gli occhi; mandano il denaro, quello sì, ma la Bosnia è sola e fa quello che può. Ci sono tante organizzazioni a Bihać adesso. L’attenzione durerà quest’inverno, come quello passato, e poi ogni attività peserà di nuovo sulle organizzazioni bosniache».

L’incendio del campo di Lipa ha portato l’attenzione internazionale sulla Bosnia solo da qualche giorno, mentre da mesi la situazione viene rimpallata: l’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni che in Bosnia gestisce sette campi) attende che la Bosnia faccia qualcosa; la Bosnia che l’Oim agisca; mentre l’Unione Europea si concentra su altro.

Pochi giorni fa, nel campo di Blažuj, alle porte di Sarajevo, migranti e polizia sono entrati in conflitto. Due agenti e un ufficiale dell’Oim e alcuni profughi sono rimasti feriti. Le rivolte nel campo sono avvenute dopo che i lavoratori dell’Oim hanno cercato di spostare un migrante turbolento in un altro campo.

«L’incendio di Lipa, gli scontri a Blažuj... Doveva succedere questo perché fuori da qui capissero che è una crisi in cui tutti devono fare la loro parte – conclude Mešić –. Ma sembra che ognuno aspetti che qualcun altro faccia qualcosa, mentre i profughi vengono picchiati, umiliati, derubati alle frontiere e rimandati in Bosnia».

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