L’umanità rischia la distruzione a causa della noia
Torbjørn Øverland Amundsen
I bambini del crepuscolo
Salani – Milano 2014
pagg. 504 – 16,90 euro
L’idea germinale del romanzo è piuttosto trita, ma paga sempre: sull’umanità pende il pericolo di essere distrutta nella sua totalità. L’autore la impiega non senza un pizzico d’astuzia, considerate le diverse salse in cui la intinge e la propina. Ognuno può liberamente verificare il risultato, ma l’indigestione da pagine inutili è difficile da smaltire.
Il globo terrestre è abitato, oltre che da comuni mortali, anche da esseri dotati di intelligenza superiore e di mille altre qualità. Dai loro creatori, venuti da chissà quale punto nel tempo e nello spazio, sono stati condannati a reincarnarsi continuamente, ma senza che il “baccello” umano superi mai l’età dei quattordici anni. La giustificabile (in)sofferenza di Paolo – uno dei “bambini” – per la condanna poco sopra evocata degenera in pazzia, al punto che egli progetta un disastro ambientale immane per cancellare l’umanità e, con questo, arrestare per sempre il ciclo delle reincarnazioni. Il compito di salvare la terra e i suoi abitanti grava prevalentemente sulle spalle di Arthur (egli pure uno dei bambini) e di Nathaniel (giovane mago della programmazione e creatore del raffinato software capace di rilevare la presenza dei bambini sull’intero globo terrestre). Tra di loro nasce e matura una sincera amicizia, benché partita fra comprensibili diffidenze, progressivamente dissolte dalla collaborazione.
Seconda, terza e quarta di copertina non lesinano sui grani d’incenso offerti e bruciati all’emergente scrittore norvegese. In realtà, incorniciano d’alloro una ricetta indubbiamente buona, ma la cui esecuzione lascia parecchio a desiderare. Per irretire i lettori con nobili analogie vengono scomodati nomi di successo come J. Gaarder (Il mondo di Sofia) e Ph. Pullman (La bussola d’oro), mentre non si fa mistero delle competenze dell’autore, che spaziano dalle tecnologie dell’informazione alla filosofia della mente, passando per la psicologia. Sicuramente questo moltiplica il numero delle attese nei confronti di una narrazione che, però, strizza l’occhio in mille direzioni – non ultima la costellazione delle mitologie nordiche – ma senza guadagnare mai quota e accumulare tensione. È quasi sorprendente che il disastro mondiale annunciato, su cui dovrebbe reggersi l’architettura del racconto, attivi un tasso adrenalinico trascurabile. L’escamotage del conto alla rovescia, al termine del quale un ordigno nucleare deve scatenare il finimondo, premia solitamente le velleità di scrittori di grado qualitativo differente, ma stavolta sembra un dispositivo frusto e privo di ogni efficacia sulla noia montante lungo le interminabili cinquecento pagine.
Gusti di lettura dell’autore fanno in modo che il romanzo sfiori incandescenti domande antropologiche come quelle riguardanti l’identità dell’uomo, la sua origine, il suo destino, il perimetro delle sue capacità, delle sue possibilità e dei suoi limiti. Di solito esse vengono affrontate in pesanti volumi per addetti ai lavori, oppure si soffocano nella chiacchiera di heideggeriana memoria o nel vapore anestetico del divertissement stigmatizzato da Pascal. Sarà vero che non si acquista un romanzo con la speranza di trovarvi l’ossimoro di un godibile trattato di filosofia, ma l’impressione che si affaccia alla coscienza, immediatamente dopo aver riposto nello scaffale I bambini del crepuscolo, è quella di una preziosa occasione persa. Se ha, infatti, un briciolo di pertinenza il confronto con i romanzi di Gaarder, norvegese come il più giovane e meno famoso talento scandinavo, va osservato che ne Il mondo di Sofia il grande pensiero occidentale è stato in grado di affascinare schiere di lettori proprio per il felice sforzo dell’autore di riannodarlo con i grandi interrogativi dell’umanità. E se grazie a Gaarder non si vedeva l’ora di scoprire il contenuto della lettera volta per volta recapitata a Sofia, con il suo connazionale non si vede l’ora di esaurire le pagine. Altra storia, si dirà. Altro piglio e, forse, altro talento, è lecito ipotizzare.