Le tante “anime inutili” che popolano una ballata
di SILVIA ALLEGRI
Un libro, un autore che mette sempre in risalto gli “scartati”
di SILVIA ALLEGRI
Una storia corale che vede sullo sfondo l’Italia fascista e la fine di un’epoca. Ma, soprattutto, una storia che racconta di un mondo rurale popolato di persone umili, eppure forti, desiderose di rialzarsi in piedi e ricominciare a guardare al futuro, tutelando gelosamente i propri affetti. Con il romanzo La ballata delle anime inutili (Neri Pozza, 2023) Tommaso Avati, figlio del regista Pupi che si divide tra cinema e letteratura, porta i suoi lettori in un piccolo paese della Puglia, dove nel 1938 un’intera comunità si convertì all’ebraismo proprio mentre venivano promulgate le leggi razziali.
– Pochi forse sanno dell’esistenza di una comunità di ebrei convertiti, guidata da una figura autoritaria e particolare, Donato Manduzio. Siamo nel Dopoguerra, a San Nicandro, in Puglia.
«È un fatto davvero poco conosciuto ed è un fatto veramente singolare, con le caratteristiche del mistero e dell’inspiegabile. Basti pensare che il capo carismatico della comunità, Manduzio, non sapeva né leggere né scrivere, e che imparò a farlo a letto, mentre lo curavano per una grave ferita di guerra. Lesse tutta la Bibbia, e una notte ebbe una visione che cambiò la sua vita e quella dei suoi compaesani. Quel che è ancora più peculiare di tutta questa vicenda è che quella gente decise di diventare ebrea esattamente mentre in Italia iniziavano a furoreggiare le leggi razziali; quando insomma tutti gli ebrei del mondo scappavano, si nascondevano, loro decisero di cambiare vita. Mi sembra una storia straordinaria, è la storia di come si possa seguire una propria convinzione, una propria vocazione, al di sopra e al di là di ogni legge, di ogni convenienza. Ma il libro è anche e forse soprattutto la storia di una grande famiglia. Che è una famiglia pugliese come potrebbe essere di qualsiasi altra regione italiana. Una famiglia di contadini che deve andare avanti, accumulare, crescere sempre di più, perché allora le famiglie erano allargate e la crescita era assicurata dalla quantità di figli che si facevano. È la storia di una famiglia attraverso dieci anni della vita di questo Paese, dal ’38 al ’48, ed è la storia di quel che rimane, alla fine, di quella grande famiglia».
– Nel titolo si parla di anime inutili, e Sofia, una delle protagoniste, così viene descritta dal padre: inutile. A lei poi è attribuito un nomignolo che richiama la sua lentezza, in modo dispregiativo. Cosa l’ha ispirata nella creazione di questo personaggio?
«La sua lentezza deriva da una discalculia, e cioè dalla incapacità di compiere le più semplici operazioni matematiche, e io la conosco bene, ne sono affetto a mia volta. Ma la sua vera inutilità, oltre che da questo problema dell’apprendimento, che allora non era conosciuto e quindi non era diagnosticato, dipende soprattutto dal fatto di essere femmina. Sofia è la quinta figlia, unica femmina, di quella famiglia famosa (e perciò orgogliosa) per produrre solo figli maschi. Questo è il suo peccato originale, questo è il suo vero problema, essere donna e non avere una dote, perché tutto quel che il padre e i fratelli hanno accumulato negli anni spetta a loro. Il romanzo è quindi anche un resoconto piuttosto fedele e documentato di quella che era la condizione della donna in quel tempo, e parliamo di solo 80 anni fa, nelle nostre comunità rurali. Una condizione assolutamente folle, inconcepibile, che però ci serve per capire come alcuni segnali di quel barbaro e arcaico modo di pensare siano ancora in parte presenti in questo Paese. Il personaggio di Sofia poi in realtà cresce, compie una sua evoluzione lungo il percorso narrativo. La sua presunta inutilità si trasformerà, e come dal baco fuoriesce una farfalla, si trasformerà in qualcosa di radioso».
– Anche nel libro precedente, Il silenzio del mondo (Neri Pozza, 2022), si raccontava di una disabilità, anzi di una diversità. Una conferma della tua vocazione a raccontare un’umanità altra, spesso vittima di pregiudizio?
«Sono le storie più belle, quelle che riguardano personaggi in difficoltà, chi fatica ad avere un suo posto nel mondo, un suo ruolo, un po’ di attenzione, di amore e di considerazione. Sono i personaggi in cui ci identifichiamo tutti più facilmente (io per primo), perché ognuno di noi, anche se a volte non ne è consapevole, ha una ferita dentro da curare. Ognuno di noi ha bisogno di sentirsi amato, in fondo non lo siamo mai abbastanza».
– La vicenda dei campi che accoglievano displaced people (sfollati) e le loro storie sono incredibilmente attuali, soprattutto alla luce dei drammatici eventi che stanno coinvolgendo Israele e Palestina nei giorni stessi in cui è uscito il suo libro. Come sta vivendo le notizie che giungono da queste terre?
«Ovviamente non potevo immaginare che sarebbe accaduto tutto questo proprio ora. È una coincidenza molto particolare, che fa pensare. Eppure non so dire cosa significhi nel profondo, che cosa questa coincidenza stia cercando di comunicarmi. Di certo, su quel che sta accadendo in Medio Oriente non è facile formulare un giudizio. Assistiamo a immagini atroci, strazianti, sia da una parte che dall’altra e vorremmo solo gridare: basta! Smettetela! È come se entrambi avessero fondamentalmente ragione. Ed è quindi come se entrambi avessero fondamentalmente torto. Ma il compito di uno scrittore in fondo è proprio questo: riuscire a comprendere tutto per, quanto possibile, credere nelle ragioni di tutti, empatizzare con ognuno, immedesimarsi in ogni cosa. Però ho una speranza: vorrei che in chi legge il mio libro restasse alla fine un messaggio, la convinzione cioè che nonostante tutto esista ancora dentro di noi una possibilità chiamata perdono. Se l’umanità non riuscirà a riscoprire la magia di questo sentimento così faticoso e misterioso, se non ci riapproprieremo di questa capacità così apparentemente insana, così scandalosamente contraria a ogni terapia psicoanalitica, la capacità cioè di dimenticare, di fare piazza pulita e di sbarazzarci magicamente con un solo salvifico gesto di ogni odio e di ogni rancore, difficilmente avremo di nuovo un futuro».
– In un passo del libro si legge: “Ma erano anni diversi, anni folli, in cui tutto era possibile, in cui la gente aveva fame di vita e in cui tutto accadeva”. Nel dramma di quel periodo lei vede anche uno slancio, una voglia di vivere. Come si è documentato su quell’epoca e come la percepisce?
«Ho dovuto leggere molti libri, naturalmente, calarmi in un’epoca storica che non è la mia, ed è poi la parte più interessante del lavoro di uno scrittore: lo studio, la documentazione. È la parte più creativa, quella durante la quale le idee affiorano da sole. E studiando quel periodo ho scoperto che certamente è così, e che cioè dopo la guerra, quando tutto era distrutto, finito, terminato, quando non esisteva più nulla su cui anche solo pensare di costruire un domani, il domani si offriva a quella gente inaspettatamente da solo, radioso, occhieggiando loro da dietro l’angolo. E le storie in cui si deve ripartire, ricostruire qualcosa dal nulla, sono sempre le più belle».
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