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Una madre, due figli e la malattia: la cura è l’amore

di ADRIANA VALLISARI

La storia di Mariangela Tarì e del marito Mario, genitori di Sofia e Bruno 

Parole chiave: Libri (38), Salute (63), Disabilità (40)
Una madre, due figli e la malattia: la cura è l’amore

di ADRIANA VALLISARI

Al presidente della Repubblica e al suo staff è piaciuta così tanto la testimonianza racchiusa in questo libro, che il 29 novembre Sergio Mattarella ha deciso di insignire col titolo di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana l’autrice, Mariangela Tarì; insegnante di 47 anni, originaria di Taranto, vive a Verona dal 2012 col marito Mario e i due figli, Sofia e Bruno, di 11 e 9 anni.
Emoziona il capo dello Stato e ogni lettore, Il precipizio dell’amore. Solo appunti di una madre (Mondadori); è la storia di una famiglia che per due volte si è trovata ad affrontare la tragedia di vedere entrambi i figli colpiti da gravi malattie e che ha attraversato il dolore aggrappandosi con tutte le forze alla vita.
«Ci siamo trasferiti a Verona per essere seguiti meglio, dopo che a Sofia era stata diagnosticata la sindrome di Rett, un raro disturbo che colpisce quasi esclusivamente le bambine, una su diecimila; allora Bruno non aveva nemmeno un anno», ricostruisce mamma Mariangela. La sindrome di Rett «è cento malattie insieme», toglie un po’ alla volta le capacità cognitive acquisite, l’uso delle mani, la deambulazione, il sonno, la parola...
Nel 2017 anche Bruno inizia a stare male; dopo decine di visite a vuoto, i medici gli diagnosticano un medulloblastoma, un tumore maligno, rimosso dopo 9 ore di intervento invasivo per salvargli la vita. «Oggi è fuori terapia, ma gli è rimasta un’emiparesi sinistra e non vede da un occhio: è un bambino molto provato, ma anche molto forte», sottolinea Mariangela.
– Scrivere questo libro l’ha aiutata a contare le fortune, ha detto. Nonostante i buchi neri della malattia, come riuscite a essere famiglia?
«La scrittura ha una forza incredibile, mi ha fatto scoprire tutto il percorso fatto non per sopravvivere, ma per vivere la vita. Ho scoperto che nessuno si può salvare da solo: nel dolore, la famiglia è la parte più importante che hai; mi sono stati vicini i nonni, gli zii, ma anche tutti gli amici e gli altri genitori che affrontano questo dispiacere enorme. Ho capito che, dopo aver sofferto fino in fondo, bisogna accettare quello che ti sta succedendo. Come si fa? Ognuno mette in campo le proprie risorse e i propri limiti. Io sono sempre stata una persona molto fragile, ma l’amore di mio marito e della famiglia, quello per il teatro e l’arte, mi sono serviti per vedere che la vita poteva dare ancora bellezza a me e a loro. E poi, quando sai che tutto domani può finire, e questa cosa ce l’hai ben presente non per deprimerti, ma come un faro, ogni attimo è illuminato e prezioso».
– Come si è trasformato il dolore in possibilità?
«Da madre a un certo punto ho capito che dovevo smettere di essere tutte le altre figure: psicologa, fisioterapista, dottore, infermiera; la disabilità di Sofia mi aveva costretta a essere tutto questo, perché lo Stato non supporta abbastanza. Dopo anni, sono tornata a fare la madre che deve mettere la figlia a letto, raccontarle una storia, baciarla, prepararle la cena».
– Spesso nella nostra società le persone fragili sono invisibili. Lei, con suo marito, si batte ogni giorno per affermare la dignità dei vostri bambini, perché non siano identificati con la malattia, ma riconosciuti come persone. Quanto lavoro culturale c’è da fare ancora?
«La disabilità spaventa e allontana. Il cancro invece avvicina, perché ci ricorda che può venire a tutti e nella paura ci stringiamo. Invece la disabilità la vediamo come una cosa che non ci può accadere mai; non pensiamo che tutti, un giorno, saremo disabili, anziani o semplicemente stanchi e acciaccati. Quando si ammala un bambino, si ammalano tutti intorno; col tumore di Bruno le persone hanno cucinato per noi per mesi, mentre la disabilità è considerata più una cosa personale. Ti dicono: “Ma sì, è come se avessi un neonato sempre”. A 40, 50, 60, 70, 80 anni, tutta la vita. E allora è incredibile che nello stesso condominio non ci sia mai nessuno che ti chieda se hai bisogno che ti venga fatta la spesa o che ti si porti da qualche parte... A me, ad esempio, occorre un’altra persona per uscire o anche solo per lavarmi. Tutta la società dovrebbe essere pensata per i più fragili: sono gli ultimi del mondo e quelli che più patiscono, come abbiamo visto durante la pandemia, che è stata un acceleratore di disuguaglianze. Prendiamo la scuola: in Italia ci sono ancora bambini che a dicembre non hanno la maestra di sostegno».
– Nel libro scrive che c’è una normalità regalata a molti, senza che se ne accorgano; la vostra com’è?
«La cosa più bella è quando guardano alla mia famiglia come una famiglia normale. Noi vogliamo sederci a mangiare un gelato tutti insieme o fare un viaggio, se vogliamo. Ciò che per tutti è banale, per noi è faticoso; però quando raggiungiamo queste piccole grandi conquiste e gli altri ti osservano con lo sguardo della normalità, non indagatore, allora vuol dire che qualcosa di buono è stato seminato».
– Lei tocca con delicatezza la questione dei caregiver. Quella schiera silenziosa di donne, soprattutto, dedite a prendersi cura di familiari con disabilità. Vi accomuna una paura: quella di non sopravvivere ai vostri cari...
«Questo dolore mi accompagna sempre, nessun genitore ne è esente. Però il dolore ha questa cosa incredibile, che è come l’amore: quando siamo innamorati tutto ci sembra diverso; il dolore fa lo stesso: ha questa potenza creatrice enorme perché rinomina le cose, le dà un senso diverso. Diventa un’energia da sfruttare e da mettere da qualche parte. Io gli ho dato una casa, che è la mia associazione, “La Casa di Sofia” (che si occupa di migliorare la qualità di vita dei bambini con disabilità e alla quale andranno i proventi del libro, ndr). Questo forse è il dono più grande: capire che a questo destino, a cui non puoi sfuggire, puoi dare un senso se crei qualcosa di positivo».
– Cinque anni fa è entrata in vigore la legge sul “dopo di noi”: ha cambiato qualcosa?
«I caregiver familiari sono riconosciuti dalla legge, ma a tutt’oggi non esiste niente per loro. Non c’è un fondo, si perde il lavoro, si diventa l’estensione del congiunto che si assiste, non si ha diritto a niente (al riposo, al sonno notturno, alla vacanza, alle proprie cure mediche). Continuano a usarci in campagna elettorale, ma in realtà nessuno sa cosa significhi accudire 24 ore su 24 una persona che non è in grado di autodeterminarsi, una persona che se ha sete non può bere, se ha fame non può mangiare, e che non può esprimersi».
– Il presidente della Repubblica però è stato toccato dalle sue parole. Come ha accolto questo riconoscimento?
«È stato importante, perché riconosce la schiera invisibile dei caregiver familiari. Quelle persone che rischiano di mettere in pausa la propria vita per rendere quella del proprio congiunto degna di essere vissuta. Personalmente ho la fortuna di aver conservato due cose: la capacità di chiedere aiuto e di aprire le finestre di casa mia. Vuol dire essere capaci, anche nel dolore, di cogliere la felicità. Può essere un sorriso, una canzone sul letto, tuo cognato che ti abbraccia, un amico che viene a trovarti: tuttavia, se non sei pronto e non hai le porte aperte, ti perdi anche l’incidente felice, che poi è quello che ti permette di andare avanti ogni giorno».
– Ora siamo in Avvento, un tempo di attesa e di desideri. Quali sono i suoi?

«Mi auguro di non perdere tutto ciò che mi ha portato fino a qui. Cioè la capacità di provare ancora stupore e meraviglia per la vita». 

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