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Quel prete mite che rischiò la vita per salvarne altre

di ADRIANA VALLISARI

Il nuovo libro di mons. Bruno Fasani racconta, in forma romanzata, l'incredibile vicenda dello zio don Antonio

Quel prete mite che rischiò la vita per salvarne altre

di ADRIANA VALLISARI

Era un prete mite ma solido, don Antonio Fasani. Nell’autunno del 1944 era parroco a Lughezzano, nel comune di Bosco Chiesanuova, una zona della Lessinia battuta dai rastrellamenti antipartigiani. Lì si trovò al centro della Storia: arrestato dai fascisti repubblichini assieme al fratello Luigi, fu imprigionato e torturato nella caserma della Guardia nazionale repubblicana di via Pindemonte, a Verona.

Era considerato un “soggetto sospetto e pericoloso”, solo perché praticava il Vangelo. A partire da un plico di memorie dattiloscritte, rimaste inedite fino alla sua morte, avvenuta nel 1992, la storia eroica di don Antonio adesso è diventata un romanzo. S’intitola Quel prete è da fucilare (Tau editrice) ed è il libro che stanno ricevendo in omaggio gli abbonati di Verona fedele che hanno sottoscritto la formula “Amicizia”.

L’autore è una firma nota ai lettori: a tratteggiare con maestria la storia dello zio, divenuto anche canonico della Cattedrale, è mons. Bruno Fasani, prefetto della Biblioteca Capitolare, già direttore del nostro settimanale, dov’è presente ogni settimana con la rubrica “Il Fatto”. «Era il 1991 quando lo zio mi diede una busta, dicendomi di aprirla solo dopo la sua morte e di farne quello che volevo – racconta –. Si trattava di trenta fogli dattiloscritti in cui lui raccontava la sua prigionia e quella di mio padre; li sottoposi all’Istituto veronese per la storia della Resistenza, che li validò, pubblicandoli in un fascicolo e aggiungendo così un ulteriore contributo alla conoscenza dei fatti della Resistenza».

Da allora, però, don Bruno cullò sempre il desiderio di divulgare la storia dello zio a un pubblico più vasto. Da qui la scelta di raccontarla sotto forma di romanzo. «Ma attenzione: quello che scrivo nel libro è tutto vero, sono fatti realmente accaduti, nulla è stato inventato – ci tiene a precisare –. Le uniche licenze che mi sono preso riguardano i nomi delle persone coinvolte: tutti quelli al di fuori della mia famiglia sono stati cambiati». La trama sembra quasi il copione di un film. Don Antonio, pastore di anime con una parola buona per tutti, diventa oggetto di attenzione quando è sospettato di aver messo al sicuro, in un convento di suore, la figlia di un noto partigiano della zona, di cui i nazi-fascisti volevano servirsi per obbligare il padre alla resa. Viene arrestato dalle camicie nere insieme al fratello Luigi, il papà di don Bruno, torturato e portato davanti al plotone di esecuzione.

«Lo zio era un uomo mite, ma la sua mitezza, che sembrava a volte arrendevolezza, in realtà nascondeva una grande determinazione», lo descrive il nipote. Saldo nella fede, don Antonio fa di tutto per difendere i parrocchiani da eventuali rappresaglie prima di riavere la libertà; una parola, questa, spesso ripetuta nelle pagine, che scorrono via veloci. Il lettore si trova davanti a una realtà cruda, fatta di violenze, paura e miseria; ma a fare da contraltare c’è la grande umanità della gente, la vicinanza reciproca, la vita corale della contrada, fondata sui valori potenti della fratellanza e della dignità, alimentati da una fede incrollabile, nonostante i tempi bui. Ci sono poi personaggi memorabili, come il Mene, la Olga, i piccoli Celeste e Leone, e pure, a suo modo, la maestra Maria: personaggi tratteggiati a 360 gradi, con i loro vizi e virtù.

A distanza di ottant’anni da quei fatti, sono tanti i temi di riflessione che emergono da questa vicenda, che ha come protagonista un giovane prete che collezionava selci, amava curare l’orto e pure studiare l’ebraico. «Ho scritto questo libro per due motivi: il primo, per onorare un uomo che ha creduto evangelicamente nei valori della libertà e della democrazia – conclude l’autore –. Il secondo, perché le dittature striscianti del pensiero sono sempre in agguato. Ecco perché, se dovessi salvare qualche riga del mio libro, sceglierei questo passaggio: “Maestra, lei ha in mano il destino di molti ragazzi, il nostro futuro. Non dimentichi mai di insegnare loro il valore della libertà: non vale la pena vivere se siamo chiamati a essere dei sudditi. Il fascismo ci ha tolto la libertà di esprimere il nostro pensiero, la libertà di stampa, di riunirci insieme, di organizzarci secondo il nostro orientamento politico; ci ha privati del segreto legittimando perquisizioni, la delazione, seminando il sospetto. Soprattutto ha introdotto la violenza come metodo per far tacere il dissenso. Tutto questo non può diventare il domani di una nazione: questo ne decreta la fine, il fallimento morale”».

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