Il Fatto di Bruno Fasani
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Amarezza per Santa Sofia, strategia a corto di armi politiche

«Il pensiero va a Istanbul. Penso a Santa Sofia e sono molto addolorato». Sono parole che hanno il gusto amaro del sale delle lacrime quelle che papa Francesco ha pronunciato all’Angelus di domenica scorsa. Poche parole, come un’epigrafe che si scolpisce su una lapide, intrecciando memoria e dolore...

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«Il pensiero va a Istanbul. Penso a Santa Sofia e sono molto addolorato». Sono parole che hanno il gusto amaro del sale delle lacrime quelle che papa Francesco ha pronunciato all’Angelus di domenica scorsa. Poche parole, come un’epigrafe che si scolpisce su una lapide, intrecciando memoria e dolore.
Santa Sofia, la più bella chiesa d’Oriente, così come la pensò e la volle Giustiniano nel VI secolo, torna prigioniera dell’islam, sottomessa sotto i colpi di una politica che ancora una volta si serve di Dio per servire se stessa. Era il 1934 quando l’illuminato Mustafa Kemal Atatürk, padre della Patria oggi fortemente ridimensionato, volendo dare un volto moderno ed europeo alla Turchia decise che quella cattedrale doveva diventare un museo. Un luogo di memoria e di arte per tutti, un bene dell’umanità, a prescindere dalla fede di appartenenza. Si andava così a chiudere una storia durata sei secoli, partita nel lontano 1453 quando Costantinopoli era caduta nelle mani degli Ottomani e Maometto II aveva fatto il suo trionfale ingresso proprio davanti a Santa Sofia, espropriata ai cristiani dopo 10 secoli di appartenenza. Quello che è venuto dopo sarebbe stato un tempo segnato da odio e violenza, chiusure ed incomprensioni. Tutto sembrava aver trovato un nuovo respiro proprio nel 1934, quando una sana laicità metteva fine alle incomprensioni, dimostrando che chi ama Dio davvero può stare accanto a chi pratica un’altra religione, senza che si scatenino gli istinti di Caino.
Oggi con Erdogan non è più così. Come un capriccioso sultano medievale, sta muovendo all’indietro le lancette della storia attraverso una progressiva islamizzazione della Turchia, allontanando così il Paese da quell’orizzonte europeo cui, a parole, ha sempre detto di voler aderire. Lo fa in nome di Allah. Ma questa volta Allah è solo un pretesto, un volgare bancomat, per incrementare il consenso della fascia fondamentalista del Paese, nel momento in cui la crisi economica e la repressione dei diritti individuali stanno trascinando in basso la sua credibilità.
Cosa accadrà nei tempi brevi  è difficile prevederlo, anche perché le dittature, mascherate da democrazia, difficilmente consentono di leggere i fatti con la logica della razionalità. Ma pensando alle nuove generazioni turche e al fatto che stanno crescendo, come in tutto il mondo, a pane ed internet, ossia nella globalizzazione degli stili di vita e nel bisogno di essere riconosciute nei diritti soggettivi, viene da paragonare la figura di Erdogan alla statua biblica di Nabucodonosor, quella con la testa d’oro e i piedi di argilla. È vero che il mondo oggi sembra avere una certa simpatia per i dittatorielli da briscola (Trump, Bolsonaro, Orban e tanti altri di cui mi taccio) consentendo loro emotive sopravvivenze elettorali, ma è pur vero che la storia non si ferma e ad andare col passo del gambero sarà essa stessa a decretare il loro destino.
Pensando a Santa Sofia da cristiano provo ovviamente il dolore di papa Francesco. Ma mi solleva il pensiero che proprio prima di andarsene il Signore ci aveva messo in guardia dalle persecuzioni, dall’odio e dalle ostilità del mondo. Beati voi… Essere cristiani significa vivere nell’apparente perdita che è tipico del vivere nella fatica di amare, cioè della croce. Vivere amando e rinunciando ai toni del rancore e della vendetta è una perdita, ma solo in apparenza. Perché, nei fatti, è la storia stessa a raccontarci ciò che dura e resiste nel tempo segnato dalla croce e quanto finisce sepolto dall’oblio di chi ha creduto di annientarla, servendosi di un dio senza amore per ragioni politiche.

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