Il Fatto di Bruno Fasani
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Tanti virus nascosti e letali ci hanno resi uomini contro

Nei giorni scorsi, mentre un timore diffuso avvolgeva le nostre chiese, rendendole luoghi desolati come nessuno di noi aveva mai visto prima, ho avuto la gioia di pregare e celebrare con pochi altri confratelli, a porte chiuse per la paura, come la primitiva comunità apostolica. Paure diverse, ovviamente...

Parole chiave: Il Fatto (417), Bruno Fasani (325), Virus (10), Coronavirus (96)

Nei giorni scorsi, mentre un timore diffuso avvolgeva le nostre chiese, rendendole luoghi desolati come nessuno di noi aveva mai visto prima, ho avuto la gioia di pregare e celebrare con pochi altri confratelli, a porte chiuse per la paura, come la primitiva comunità apostolica. Paure diverse, ovviamente. Quella fuggiva dalla violenza degli uomini. Questa, dalla violenza di un virus capace di seminare malattia e morte, come un nemico subdolo e nascosto.
Si è trattato di celebrazioni sommesse senza essere dimesse. Tutto, a cominciare dalle luci e dalle voci aveva la compostezza di una essenziale sobrietà. Un pessimista avrebbe pensato all’evocazione di una celebrazione delle catacombe. Ma un uomo di Dio percepiva da subito che il tono era invece quello di un momento mistico. Un incontro essenziale con il Signore dove tutto ciò che colpisce gli occhi, spesso distraendoli, diventava evanescente lasciando il passo a un dialogo spirituale senza filtri e senza le mediazioni simboliche di certa ritualità.
Ci si sentiva quasi dei monaci, isolati dal chiasso del mondo, quelli che qualcuno, abituato a credere solo nel verbo fare, si ostina a definire vocazioni inutili. Eppure è stato proprio nell’aria rarefatta di quelle “solitudini” liturgiche che si imponeva la potenza salvifica del fatto cristiano. Intorno a quella mensa dove si stava in pochi, quasi immersi in una litania del cuore, non si compiva un rito, giusto perché così devono fare i preti, ma si prendeva in mano il mondo, le sue paure, le sue infermità, per presentarle all’unico che può guarire le ferite dell’uomo e della sua terra.
Soprattutto, in quelle pause di silenzio orante, diventava ancora più evidente che la paura del virus non è altro che il vertice di una tempesta Vaia che attraversa il mondo da tempo, seminando i venti di altre paure. Paura dell’immigrato, ostilità tra gli Stati, violenza politica, verbale, violenza digitale, guerre dei dazi, nazionalismi, sovranismi, opposizione Nord-Sud... Forse neppure Covid 19 sa di essere l’ultimo dei virus tra tutti quelli che hanno trasformato il mondo in una terra di uomini contro.
Ed era lì, in quella preghiera fatta di solitudine che sentivi invece la logica del Vangelo alzarsi forte come un grido per dire che non dobbiamo avere paura, che gli altri non sono nemici. A dirci che le nostre strade sono le stesse che da Gerusalemme vanno a Gerico, sulle quali incontriamo le fragilità di persone sofferenti, senza storia e senza nome, se non con le storie delle loro ferite.
Passerà il Coronavirus, quando la Provvidenza deciderà che abbiamo sofferto abbastanza, ma sarà allora che dovremo ricordarci degli altri virus, quelli che ci rendono ogni giorno ostili, rendendo il mondo come un caleidoscopio di individualismi e di sospetti. I virus dentro le nostre case, immerse spesso nell’incomunicabilità dell’indifferenza. E sarà spontaneo tornare a guardare il Vangelo, scoprendo che solo da esso si sprigiona il calore del nido e quello potente della solidarietà.

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