Ex Cathedra
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La peste, specchio del bene e del male

All’apparire del contagio del Coronavirus in molti si sono ricordati dei testi che in queste circostanze danno una possibilità di lettura del fenomeno proiettandolo in una dimensione che abbracci il tempo della storia, ma non se ne lasci imprigionare del tutto.

Parole chiave: Ex Cathedra (34), Lino Cattabianchi (16), Coronavirus (96)

All’apparire del contagio del Coronavirus in molti si sono ricordati dei testi che in queste circostanze danno una possibilità di lettura del fenomeno proiettandolo in una dimensione che abbracci il tempo della storia, ma non se ne lasci imprigionare del tutto. E, a parte il Boccaccio, con i suoi dieci ragazzi che nel gran contagio del 1348 escono da Firenze, città della morte, per ricreare in dieci giorni di racconti, il Decameron appunto, la vita dentro un contesto naturale, non possiamo dimenticare, facendo un salto nel Settecento, il Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe. Pubblicato anonimo nel 1722 dall’autore, che era un grande giornalista, arriva, come in un reportage, il racconto della pestilenza di Londra del 1665 con l’evidenza della cronaca. Da lì ad Alessandro Manzoni e ai Promessi Sposi, il passo è breve e, se si arriva al romanzo fondativo della nostra letteratura, costato vent’anni di revisioni e tre edizioni fino alla definitiva “Quarantana” del 1840-42, con le illustrazioni di Francesco Gonin e, in appendice, la “Storia della colonna infame”, si deve giocoforza tornare ancora al ’600 delle credenze magiche, delle streghe e degli untori. Tutto, nel racconto della peste manzoniana, si consuma nel biennio 1629/30, sullo sfondo di un episodio marginale della Guerra dei Trent’anni che però ha inciso profondamente sul nord Italia, arrivando infine il “Gran contagio” a dimezzare la popolazione, prima di andare a spegnersi a Capodistria. E, dalle prime battute, il racconto procede avvisando il lettore che il grande incendio è divampato da una piccola scintilla che non è stata subito circoscritta e spenta dalle autorità. Che anzi queste stesse hanno negato fino all’impossibile la realtà, quando ormai, come medita, scrivendo, il Manzoni, “la peste era già entrata in Milano” (Cap. 31°, p. 589, Ed. 1840). C’è nelle pagine manzoniane un fondo di lucida razionalità illuministica che in modo ragionante ricerca le cause di tanto flagello ma allo stesso tempo si stupisce nel constatare, con timore e tremore, l’irrazionalità dei comportamenti pubblici e privati messi in atto per tentare di arginarla, aggirarla, negarla e infine affrontarla a viso aperto con il corollario, ieri come oggi, di oscuri eroi del dono di sé. Un lungo sospiro trattenuto che racconta eroi, padre Cristoforo, vittime strazianti, la madre di Cecilia, e adombra implacabile la mano della giustizia divina che cala inesorabile a compiere una profezia (“Verrà un giorno…”, cap. 6°, pag. 104) quando si abbatte sul già potente Don Rodrigo, ora in balìa dei monatti: “L’uomo si vide perduto” (cap. 33°, pag. 628). Miseria e grandezza, egoismo e generosità: non ci sono vie di mezzo. La peste come in un cristallo riflette il meglio e il peggio. Albert Camus, nell’ultimo testo che citiamo, La peste, pubblicato nel 1947 e ambientato nella cittadina algerina di Orano nell’imprecisato anno 194..., pone al centro la figura di un medico, Bernard Rieux, che rimane a combattere il contagio ad un prezzo altissimo. Attorno a lui ruota la ricerca di senso di tutti i personaggi nei quali si rispecchia, durante i mesi della peste, come nelle grandi storie, una parte di noi.

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