Pentagrammi
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La strategia dell’eccesso nei Promessi sposi di Ponchielli

Inutile negarlo: in questi giorni drammatici, il pensiero più volte è tornato alle letture classiche della nostra scuola, le quali raccontino la lotta dell’uomo contro la malattia...

Parole chiave: Promessi sposi (3), Pentagrammi (37), Manzoni (2)

Inutile negarlo: in questi giorni drammatici, il pensiero più volte è tornato alle letture classiche della nostra scuola, le quali raccontino la lotta dell’uomo contro la malattia. E tra queste, il poderoso affresco della peste dipinto dal Manzoni nei Promessi sposi non manca di colpire in modo particolare per le inquietanti analogie con la situazione attuale. Un romanzo che ha contribuito non poco a creare la Nazione italiana, a unificarla dal punto di vista linguistico e culturale, com’è noto. E un romanzo – e questo forse noto lo è meno – che ha fornito spunto al teatro musicale in diverse occasioni, con opere però di scarso successo, che sono ben presto uscite dal repertorio.
Tra le molte riscritture dei Promessi sposi, la più interessante è quella composta da Amilcare Ponchielli (l’autore del capolavoro La Gioconda) nel 1856, con revisione del 1872. Il libretto venne steso da un numero ancora oggi non certo di autori diversi, tra i quali però sicuramente Ponchielli stesso e l’illustre Scapigliato Emilio Praga. Questi autori dovettero operare tagli drastici alla trama, così come del resto dichiarato nell’avvertenza del libretto: “Il romanzo del celebre Manzoni suggerì il contenuto di questo libretto; ma poiché le esigenze del teatro non lo permettevano, non vi si vede sviluppata tutta la vasta tela ond’è ordito quel racconto. Anzi si limitò il numero dei personaggi, si unirono circostanze di tempo e di luogo, dando talvolta maggior risalto a cose di cui nel romanzo è appena stato accennato”. Abbiamo quindi un Promessi sposi senza Don Abbondio, per esempio, personaggio difficile da inserire in un contesto serissimo come quello pensato da Ponchielli, che si concentra su una sequenza che parte dai preparativi delle nozze, al rinvio forzato, al tentativo di “matrimonio per sorpresa” con il parallelo tentativo di rapimento di Lucia, alla fuga a Monza dove incontriamo la Monaca. Abbiamo poi l’Innominato che libera Lucia con intervento del Borromeo, la morte del malvagio Don Rodrigo, l’incontro finale tra Renzo e Lucia che si sposano con la benedizione di Padre Cristoforo, dopo essere scampati alla peste.
Pur in una sintesi estrema, siamo per fortuna lontani da certe reinvenzioni operistiche dell’epoca, di quelle che ricucinavano il Werther di Goethe con il protagonista e Carlotta che uccidono Albert e scappano in America, anche se è dura mandar giù il racconto senza il martirio di Padre Cristoforo. Ma il nucleo drammatico che interessava Ponchielli, e che rende l’opera degna di essere ascoltata, risiede da una parte nell’offesa del sentimento puro e al conseguente impedimento delle nozze, in modo tale da poter ritrarre, musicalmente, una Lucia particolarmente sensuale (miracoli del melodramma!); dall’altra, in una caratterizzazione d’una Gertrude prossima alla follia secondo paradigma operistico proto-ottocentesco. Così, stupisce l’esplicitazione sentimentale, tutta “abbandono”, “estasi”, “palpiti”, con la quale si esprime il lirismo della protagonista, assecondato da Ponchielli con una fin troppo robusta rete di archi in tensione dinamica costante; e allo stesso tempo, colpisce l’eccesso parossistico della scrittura utilizzata per la Monaca e per il suo amore dispotico e lacerato, al limite del delirio. Non saremo con Ponchielli ai vertici dell’arte, ma confrontare la sua opera con il capolavoro di Manzoni ci aiuta a capire cosa sia la strategia dell’eccesso, tipica del melodramma, a fronte della misura classica del romanzo più alto della nostra tradizione.

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