Editoriale
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È bastata una foto per cambiare molti cuori?

C’è voluta la foto del piccolo Aylan Kurdi, morto annegato su una spiaggia turca. Un’immagine crudele. Una sofferenza inenarrabile. E il senso di impotenza e sconfitta che ci ha pervasi e che tutti abbiamo percepito sulla nostra pelle. La vicenda di Aylan è un grido, una protesta cui nessuno può sottrarsi...

Parole chiave: Renzo Beghini (62), Aylan Kurdi (1), Editoriale (402)

C’è voluta la foto del piccolo Aylan Kurdi, morto annegato su una spiaggia turca. Un’immagine crudele. Una sofferenza inenarrabile. E il senso di impotenza e sconfitta che ci ha pervasi e che tutti abbiamo percepito sulla nostra pelle. La vicenda di Aylan è un grido, una protesta cui nessuno può sottrarsi.
Ed è cambiato il vento. Ecco il suono di rumori convergenti, direbbe Henry Jenkins. Voci antiche. Francesco: «Ogni parrocchia accolga una famiglia di profughi»; Scola ai parroci: «Aprite le porte ai migranti»; Nosiglia: «Fedeli e parrocchie, accogliete gli immigrati»; Moraglia: «Non possiamo chiudere il cuore»; Zenti: «Coinvolgere famiglie e comunità parrocchiali».
Ma ci sono anche voci nuove che non ti aspetteresti: Merkel: «Pronti ad accogliere 500mila profughi»; Hollande: «La Francia è pronta a fare la sua parte»;  Junker: «È il momento della solidarietà! Priorità all’accoglienza»; Renzi: «Superare gli egoismi nazionali». Cos’è successo? Un’improvvisa conversione di massa? Quale notizia può avere un potere tale da rendere doverosa una mobilitazione condivisa e convergente?
E non è vero che l’Unione Europea non sapeva, che i politici erano all’oscuro delle stragi dei migranti, delle morti in mare, dei traffici di esseri umani! La missione Mare Nostrum inizia nell’ottobre del 2013 in seguito alla morte di 366 migranti a poche miglia da Lampedusa. Ma c’è voluta la foto tragica e scioccante del piccolo Aylan per muovere le cose. Certo, per essere efficace la comunicazione deve essere emozionale, ha ricordato il prof. Diotto su queste pagine. Ma c’è un rischio: quando le emozioni prendono il sopravvento sulla ragione, quando le immagini sono più forti della parola e del confronto, la politica ne esce sconfitta. Infatti la domanda diventa: fino a quando? Fino alla prossima tragedia? Oppure cominceremo ad oscurare certe immagini per non turbare la coscienza collettiva?
Molte battaglie ideologiche hanno catturato il consenso (e influenzato le scelte politico-legislative) sulla scia di campagne mediatiche giocate sulle emozioni. Il tutto a prescindere dalla figura di persona e di città che si andava costruendo. Ancora oggi molti dibattiti, in tema di orientamento e discriminazione sessuale, di fecondazione e diritto al figlio, di immigrazione e sicurezza, sono mirati ad orientare il consenso attraverso le emozioni, non attraverso la ragione. L’importante è che ci sia un dramma, un’azione intollerabile per la coscienza pubblica, e il gioco è fatto, la razionalità sparisce, rimane il batticuore e il consenso viene da sé. Ma qui la politica non c’è più.
La vicenda del piccolo Aylan è una denuncia della debolezza dell’Europa. I silenzi della politica e il linguaggio con cui i media hanno trattato la vicenda dei rifugiati sono stati scandalosi. Possibile che tra le dichiarazioni di Le Pen, dell’ungherese Orban o di Salvini da una parte e papa Francesco dall’altra non ci sia un luogo mediano, di riflessione, confronto e sintesi, dove affrontare e risolvere i problemi?
Spazio che è di natura tipicamente politica, perché mette insieme bisogni, possibilità (risorse) e istanze valoriali, e alla fine prende decisioni. Dove quindi si distingue: tra profughi e migranti per motivi economici; tra profughi con culture diverse, alcune più facilmente e altre più difficilmente integrabili; tra chi fa accoglienza ‘coloniale’ per profitto e chi promuove percorsi di inserimento intelligente e a misura di persona, e così via. Altro che scorciatoie del cuore e delle viscere. È possibile parlare serenamente e seriamente di queste cose nel nostro Paese? O saremo sempre costretti a scegliere tra Le Pen e il Papa?

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