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Migranti: andiamo è tempo di ragionare

La Chiesa veronese s’interroga su un fenomeno antico come il genere umano che interpella politica, società civile e comunità cristiana

Parole chiave: Migrazioni (4), Integrazione (10), Accoglienza (11)
disegno con il globo attorniato da pesone in movimento (Foto Dolgachov@123RF.com)

Un fenomeno epocale che non ha bisogno di tifoserie pro e contro, ma di un serio ragionamento sulle sue cause, gli arrivi, l’ospitalità, gli eventuali rimpatri. Sulle migrazioni la Chiesa veronese vuole ragionare e lo fa in questi giorni attraverso alcuni laboratori ed eventi in vista della Giornata mondiale del rifugiato il 29 settembre. I cammini di integrazione, l’accoglienza, la questione sanitaria e quella scolastica, i mass media: tanti i temi mentre nelle nostre pagine ospitiamo un bell’esempio di convivenza con una famiglia siriana e il lavoro di alcune associazioni per i rimpatri volontari assistiti e l’avvio di iniziative in Africa.
(Foto Dolgachov@123RF.com)

Rimpatri volontari assistiti aiuti concreti in Africa e informazioni sulla realtà
C’è chi lavora per contrastare le migrazioni
Le cronache ogni giorno informano sui barconi di migranti che solcano le acque del Mediterraneo in cerca di un porto sicuro. Molto meno si sa sulle azioni realizzate per favorire i rimpatri volontari assistiti e per contrastare le migrazioni di molti africani che lasciano la propria terra d’origine impegnando spesso tutti i propri averi per mettersi nelle mani di trafficanti senza scrupoli, attratti dalla prospettiva (spesso illusoria) di capitare nel Paese di Bengodi.
Al recente Meeting di Rimini sono state presentate alcune esperienze in atto, tra le quali quella della Fondazione Avsi, organizzazione non profit impegnata nella cooperazione allo sviluppo e in progetti umanitari in 32 Stati, tra cui molti di quelli di partenza, di transito e di arrivo dei migranti.
«Siamo presenti nelle cinque principali città della Costa d’Avorio – ha spiegato Giancarla Boreatti, referente Avsi network sui profughi – e, grazie ad un progetto finanziato dall’Unione Europea, facciamo opera di sensibilizzazione alla non partenza nelle comunità locali, incontrando migliaia di persone in scuole, parrocchie, villaggi. Lavoriamo su tre direttrici: anzitutto fornendo informazioni corrette su quanto accade intraprendendo il viaggio e sulla reale situazione in Italia e in Europa. Insomma, spieghiamo a cosa vanno incontro coloro che desiderano partire. Costatiamo sempre infatti una sottovalutazione del rischio e una sopravvalutazione dei benefici che si possono conseguire nel Vecchio Continente. In secondo luogo puntiamo ad instaurare alleanze con le istituzioni locali, con i leader influenti delle comunità e con gli insegnanti, visto che i governi africani sono seriamente preoccupati di queste migrazioni» che privano i loro Paesi di una fetta di giovani.
La terza direttrice consiste nell’individuazione di modalità e strumenti di comunicazione realistici e persuasivi «con spot e campagne televisive».
L’opera di sensibilizzazione alla non partenza si accompagna all’offerta di opportunità concrete per migliorare la situazione degli aspiranti migranti: dalla possibilità di partecipare a corsi di formazione, al mettersi in rete con altri artigiani per costituire delle piccole imprese, per esempio nel settore della falegnameria.
Inoltre, grazie alla campagna “Liberi di partire, liberi di restare” sostenuta dalla Conferenza episcopale italiana, «abbiamo la possibilità di finanziare 50 rimpatri volontari dalla Tunisia e dal Niger – due Paesi di transito –, dove ancora si riscontra l’afflusso di migranti dall’Africa subsahariana e l’attraversamento incontra difficoltà molto concrete. Stiamo collaborando con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) per sostenere la reintegrazione attraverso forme di lavoro che diano reddito al momento del rimpatrio».
Una terza iniziativa si avvale del finanziamento del Ministero dell’Interno italiano «per la gestione di progetti di rimpatrio volontario assistito, in collaborazione col Consiglio italiano per i rifugiati. Da aprile abbiamo cominciato a fare rimpatri sia in Costa d’Avorio che in Nigeria. Il progetto consiste in un pacchetto di servizi e di risorse economiche (400 euro al momento della partenza e 2.000 dati sotto forma di servizi al momento del rientro) ma è fondamentale la valutazione della volontarietà della persona a ritornare nel proprio Paese, senza alcuna forzatura».
Attraverso una apposita piattaforma del Ministero vengono raccolte le domande di quanti decidono il rientro. Segue un percorso con una serie di servizi, tra i quali l’elaborazione di un progetto di reintegrazione da stendere già qui in Italia. «Noi curiamo in particolare il pacchetto di servizi al momento del reinserimento; accogliamo la persona all’aeroporto ed effettuiamo un monitoraggio per sei mesi dopo l’arrivo, consapevoli del nuovo inizio e delle difficoltà che andrà ad incontrare», ha illustrato Boreatti.
Non ci sono modelli da assolutizzare, ma è comunque importante valorizzare l’esperienza fatta dal migrante in Italia perché «anche se può apparire fallimentare, la persona può essere capace di rielaborarla e di sfruttarla come percorso positivo per sé, sebbene non dia risultati immediati».
Nel 2015 è stato creato un fondo fiduciario (Trust fund) per affrontare le principali cause delle migrazioni oltre che per cercare di impedire la tratta di esseri umani e facilitare i rimpatri. Con una dotazione di 4,5 miliardi di euro, si occupa di resilienza, ma principalmente della creazione di occupazione. «Esiste una forte correlazione tra mancanza di opportunità economiche, alta crescita demografica, difficolta di accesso al lavoro e immigrazione clandestina – ha sottolineato Jean-Marc Dewerbe, team leader e manager del Fondo fiduciario per l’Africa occidentale –. Stiamo portando avanti i nostri sforzi per creare occupazione soprattutto nei Paesi di partenza, ma dobbiamo anche far fronte alla crescente insicurezza nei Paesi di transito, al confine tra Mali, Niger e Burkina Faso».
Si cerca di stimolare l’imprenditorialità grazie alla formazione professionale. «Inoltre investiamo nell’Erasmus class che dà la possibilità a molti giovani africani di venire nelle università europee e di sviluppare competenze importanti». Così pure viene favorito l’accesso al credito che nel continente nero è molto problematico.
Dalla nascita del fondo fiduciario sono stati creati più di 11.700 posti di lavoro e quasi 15mila persone (il 42% donne) hanno partecipato alla formazione e acquisito competenze. «Gli ambiti lavorativi riguardano le officine, il settore metalmeccanico, la carpenteria e l’agricoltura, puntando a riqualificare le zone agricole, avere accesso all’acqua e ricostruire le abitazioni».
«Quello delle migrazioni non è un problema solo per noi, ma lo è anche per i leader africani sotto il profilo economico, sociale e politico», ha affermato Ranieri Sabatucci, ambasciatore dell’Unione Europea presso l’Unione Africana (Ua), una sorta di omologo dell’Ue ma con priorità diverse. Il ricambio della dirigenza dell’Ua nel marzo 2017 ha favorito l’ammorbidimento delle relazioni e «un approccio più pragmatico, volto a trovare soluzioni».
Il summit tra leader europei e africani in Costa d’Avorio nel novembre successivo venne preceduto da un reportage dell’emittente statunitense Cnn sui migranti detenuti in Libia, che venivano venduti come schiavi. «Immagini che hanno avuto un fortissimo impatto, scatenando forti emozioni. Si è creata una voglia di collaborare con l’Ue, perché per gli africani – e non solo per loro – era una cosa insopportabile. Allo stesso tempo per l’Ue era l’occasione per spiegare la propria posizione e cercare di mettere in atto iniziative comuni».
A ridosso del summit, Jean-Claude Junker (presidente della Commissione europea), Moussa Faki (presidente della Commissione dell’Ua) e Federica Mogherini (alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri) si sono incontrati col segretario generale dell’Onu per realizzare un’iniziativa volta a favorire il rimpatrio volontario dei migranti dalla Libia.
«I fondi sono stati messi a disposizione, i sistemi operativi sono stati potenziati per questa operazione che fino ad oggi ha permesso il rimpatrio e la reintegrazione di 45mila migranti – ha illustrato Sabatucci –, cinque volte più di quelli arrivati in Europa quest’anno. In un certo senso è un esempio di cosa può essere la cooperazione oggi, che non è più “io aiuto te”, ma è la ricerca di interessi comuni. Se i problemi si sovrappongono discutiamo la soluzione». Tuttavia lo stesso ambasciatore ha affermato che «la soluzione del problema dei migranti passa dalla ricomposizione del conflitto in Libia. Stiamo lavorando intensamente con l’Ua per cercare di convincere i libici a chiudere i loro campi di detenzione e vedere al tempo stesso come sia possibile collaborare per la lotta ai trafficanti in tutte le varie fasi intermedie».
L’Africa comunque «è un’opportunità che va ben al di là della migrazione. È il continente con la seconda crescita economica più alta del mondo, sta creando un mercato comune di 1,2 miliardi di persone. In Africa c’è bisogno e spazio per tutti coloro che vogliono investire», ha concluso Sabatucci.
Alberto Margoni

Andiamo, è tempo di pensare ai migranti
Fenomeno epocale su cui la Chiesa veronese intende riflettere senza chiusure né ideologismi
Il fenomeno dell’immigrazione è antico come il genere umano, ma la sua definizione in termini concettuali e la conseguente regolazione è avvenuta con la nascita degli stati nazionali basati sull’idea di comunità omogenee e racchiuse entro confini ben definiti. Perciò i migranti hanno sempre rappresentato un “inciampo” rispetto a un tipo di società coesa sotto l’insegna della bandiera nazionale. Chi parla una lingua diversa, conduce altri stili di vita; quando si insedia in un nuovo territorio, solleva il problema dell’integrazione: argomento complesso, vasto e molto “scivoloso” soprattutto quando l’intensità mediatica diventa martellante e l’uso che se ne fa per creare consenso elettorale è più marcato. Qualunque saggio, in queste circostanze, consiglierebbe di rimanere zitti e di non esporsi per non rimanere impigliati in un tritacarne che non lascia scampo a nessuno.
Invece la Chiesa veronese ha deciso di non rimanere a guardare, ma di interrogarsi e di interrogare il proprio territorio con lo scopo di capire meglio la quantità e la qualità del fenomeno per rintracciare oltre le problematiche che sono innegabili, anche le opportunità, meno evidenti, ma non meno interessanti.
Per questo sono stati costituiti una serie di tavoli di approfondimento per capire quanto questo fenomeno stia cambiando il volto di una città e la consapevolezza della comunità che vi abita.
Non si pretende di “risolvere” il problema che è planetario, ma di provare a intercettare alcune direttrici del processo di integrazione che a livello locale possono determinare esiti differenti.
Di questo si è parlato nel laboratorio che si è svolto sabato scorso nel Seminario maggiore di Verona e intitolato “Cammini di integrazione”. Non una conferenza nello stile classico, ma un seminario partecipativo introdotto da Matteo Danese del Cestim (Centro studi immigrazione) di Verona che ha presentato numeri e percentuali a livello mondiale, nazionale e locale e ha offerto una griglia di lettura per suscitare le domande e l’interazione tra i partecipanti. Questa iniziativa – più altre che si svolgeranno nei prossimi giorni – culminerà con l’evento conclusivo per tutte le parrocchie e aperto alla società civile di domenica 29 settembre alle 15.30 nell’auditorium dell’Istituto San Zeno di via don Minzoni, con la partecipazione di mons. Gian Carlo Perego, vescovo di Ferrara.
L’intento di tutto questo lavoro, che va avanti da circa un anno, è quello di non rimanere impigliati nella retorica dominante, ma di recuperare qualche strumento utile a leggere la realtà dei fatti, a conoscere tante iniziative che operano in questo delicato settore e a cercare di fare rete. Togliere la cortina di paura e la sensazione di catastrofismo è il primo passo per non intervenire con provvedimenti che, invece di risolvere il problema, rischiano di incancrenirlo rendendolo più grave di quanto non sia già.
Paure, pregiudizi e guerre tra poveri si superano partendo dal basso. Una cosa è comunque certa: la presenza di altre persone che sono simili a noi e al tempo stesso diversissime, cambierà non solo la facciata, ma anche qualcosa di più profondo nella definizione formale della società di domani, nella coscienza collettiva di una comunità di persone con legami nuovi o anche, più semplicemente, nella convivenza con i vicini di casa e i colleghi di lavoro.
La politica non produce automaticamente l’integrazione, altri fattori concorrono (in primo luogo il sistema economico); ma di certo ha grandi responsabilità nel favorirla o viceversa nel comprometterla.
Stefano Origano

«Una famiglia siriana in casa mia: due anni di gioia e condivisione»
L’esperienza di accoglienza a Pescantina
Da qualche settimana la sua casa è tornata a essere silenziosa. «Sapevo che sarebbe stata un’esperienza a termine, ma i sentimenti non si possono interrompere facilmente». Dal 27 aprile 2017 all’agosto scorso Emma Benedetti ha ospitato fra le mura domestiche una famiglia siriana fuggita dalla guerra, che ora ha continuato il suo percorso migratorio in Germania, avvicinandosi ad alcuni familiari.
Due anni e quattro mesi di quotidianità condivisa, di piccole conquiste, di ricerca di una normalità perduta. Un periodo vissuto intensamente; ricordarlo vela gli occhi azzurri di Emma, ma la gioia è più forte della nostalgia. «E stata un’esperienza incredibile, posso solo ringraziare per questo dono: ho ricevuto più di ciò che ho dato», dice commossa.
La donna, una cinquantenne libera professionista, ha deciso di aprire la sua grande casa di Pescantina a un’esperienza di accoglienza, mettendo a disposizione due stanze e un bagno. «Prima vivevo in meno di 50 metri quadrati, così quando ho avuto l’opportunità di acquistare questa abitazione da una zia mi sono detta subito che l’avrei condivisa con altri», spiega. Per un anno c’è stato un ragazzo di Messina, al Nord per lavoro. Poi si è presentata un’altra opportunità. Per caso o per destino, a seconda di come la si voglia interpretare.
«A propormi di accogliere dei profughi è stata mia cognata, che fa parte del consiglio pastorale di Santa Lucia di Pescantina, dopo aver sentito un appello dell’allora parroco don Renzo Zocca – racconta –. Ho dato la mia disponibilità nel maggio del 2016 e dopo quasi un anno è iniziata l’esperienza». Tutto è passato dalla Comunità di Sant’Egidio, che insieme alla Federazione italiana delle Chiese evangeliche e in accordo con i ministeri dell’Interno e degli Esteri dal 2015 promuove i corridoi umanitari per la Siria, martoriata dalla guerra iniziata nel 2011. Il corridoio, in pratica, è un ingresso sicuro e legale con un visto umanitario, che permette poi di presentare la domanda di asilo.
«La mia è stata la prima convivenza sperimentata a livello nazionale dalla Comunità di Sant’Egidio – chiarisce la veronese –. Ricordo ancora quel 27 aprile, quando andai a Roma ad accogliere all’aeroporto Fatima e le sue due bambine: mi avevano comunicato il loro arrivo solo dieci giorni prima, ma appena le ho viste non ho avuto dubbi, sapevo di aver fatto la cosa giusta». Di fronte a lei c’era una mamma siriana di 25 anni, lo sguardo dolce, il volto incorniciato dal velo; in braccio, intenta a succhiare un biberon di latte, Maram, di appena 4 mesi, e accanto una vispa bambina di 7 anni, Rama. Partite da sole dal Libano, dove si erano rifugiate, perché Akram, il marito e papà, poco prima di salire in aereo si era fratturato una gamba. La stessa che gli era stata amputata dopo la bomba che aveva distrutto la loro casa di Damasco, uccidendo tutti quelli che erano presenti, eccetto lui. Akram, classe 1984, siriano figlio di profughi palestinesi, è arrivato in Italia il 4 luglio, ricongiungendosi con la famiglia. Quel giorno, per i quattro, ha avuto inizio un nuovo capitolo della vita.
«Da sola non ce l’avrei mai fatta – ammette Emma –. Oltre alla Comunità di Sant’Egidio, che ha monitorato la convivenza, è stato fondamentale il supporto della Fondazione L’Ancora di don Renzo Zocca, che si è fatta carico delle spese per cibo e utenze, e la generosità di tante persone che hanno fornito carrozzine, vestiti e materiali per le bambine». Una grossa mano è arrivata in particolare da Bruno Righetti, volontario dell’Ancora, che ha seguito Akram per la parte sanitaria, accompagnandolo alle visite e all’operazione per la protesi all’ospedale “Sacro Cuore” di Negrar; e da Stefania Muraro, volontaria che ha contribuito alle incombenze quotidiane.
Altra colonna è stata la madre di Emma, Alessandra Campaldini: nonna ad honorem che con altre anziane del paese cullava la piccola Maram finché Rama e la mamma erano a scuola, a imparare la nostra lingua.
Le diversità? Molte: dalla religione (musulmana) alla lingua, dalla differente cultura al modo di cucinare. «Eppure è scattata subito una complicità femminile con Fatima – ricorda Emma –. Anche con Akram, segnato nel profondo dalla guerra, ho instaurato un legame franco».
Il cammino d’integrazione è andato avanti per gradi. Per Rama è passato dall’inserimento a scuola; per Fatima è iniziato dapprima con un corso di italiano alla San Vincenzo e culminato poi con un’esperienza lavorativa alla cooperativa sociale Filo continuo, che opera nell’ambito della disabilità, e con le cene etniche organizzate dall’associazione “Sapori da ascoltare”. Akram, invece, questo mese avrebbe iniziato un inserimento lavorativo protetto. Le cose sono andate diversamente, ma così funziona la libertà.
«Per me è stato come vivere un affido. E ho assaporato una dimensione familiare che in Italia c’era decenni fa», sottolinea Emma. A riprova, mostra la galleria fotografica del telefono, piena di scatti con i vicini (al piano di sopra abita una famiglia romena, con tre figli, ndr), le feste di compleanno delle bambine, i giochi in giardino... «Solo negli ultimi tempi abbiamo percepito attorno a noi un po’ di freddezza – ammette la padrona di casa –. Per esempio, quando mia mamma accompagnava Fatima al mercato c’era chi mormorava o la guardava storta per il velo, il clima si è incattivito».
E adesso? «Vedremo… Ho preso contatti con l’associazione “Refugees welcome”, potrei ospitare altri rifugiati – conclude –. Intanto, oltre alla famiglia siriana, ho incontrato un compagno, uno dei tanti regali che sono arrivati aprendo il cuore alle persone».
La distanza però non vince sui sentimenti: ogni sera dalla Germania arriva un affettuoso messaggio audio. La voce di Fatima e delle sue bimbe augura la buonanotte a nonna Alessandra e a Emma. «Quando vi manchiamo guardate la luna: è la stessa per noi e per voi».
Adriana Vallisari

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