Condiscepoli di Agostino
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La morte prima e seconda: pena del peccato

Nei primi undici paragrafi del libro tredicesimo del La città di Dio, Agostino fissa la sua attenzione sul mistero della morte, su cui si sono confrontati filosofi, teologi e letterati di tutti i tempi e di tutte le culture

Parole chiave: La città di Dio (66), Sant'Agostino (175)

Nei primi undici paragrafi del libro tredicesimo del La città di Dio, Agostino fissa la sua attenzione sul mistero della morte, su cui si sono confrontati filosofi, teologi e letterati di tutti i tempi e di tutte le culture. Il suo punto di partenza sta nel comparare la morte fisica a quella spirituale: “Pertanto la morte dell’anima avviene quando Dio la abbandona, come la morte del corpo avviene quando lo abbandona l’anima… si dice rettamente morte dell’anima, poiché non ha la vita da Dio… l’anima ha la vita da Dio quando vive bene; infatti, non può vivere bene se Dio non opera in lei ciò che è buono. Il corpo invece ha la sua vita dall’anima quando l’anima vive nel corpo, sia che essa stessa viva o non viva di Dio” (De civ. Dei, XIII, 2). Ovviamente, la morte seconda, che separa l’anima da Dio, può avvenire esclusivamente dopo la prima morte, quella che separa il corpo dall’anima (Cfr. Ivi).
Precisato poi il fatto che “se i primi uomini così stabiliti non avessero peccato, non avrebbero sperimentato alcun genere di morte” (De civ. Dei, XIII, 3) e che tutti i discendenti dei primi uomini peccatori sarebbero stati danneggiati dalla medesima pena, conclude: “Da loro non sarebbe nato altro da ciò che essi stessi erano stati. La condanna per la grandezza della colpa mutò in peggio la sua natura, così che ciò che penalmente precedette nei primi uomini che peccarono, anche in forza della natura seguì negli altri che sarebbero da loro nati” (Ivi).
Questo il ragionamento di Agostino: “Nel primo uomo ci fu l’universo del genere umano, che per mezzo della femmina sarebbe transitato di generazione in generazione, proprio quando quella coppia di coniugi ricevette la sentenza della sua condanna. E appunto ciò che l’uomo era stato fatto, non quando veniva creato, ma quando peccava e veniva punito, questo generò, per quanto riguarda l’origine del peccato e della morte… in lui l’umana natura fu viziata e mutata, al punto da subire nelle sue membra la ripugnante incapacità di sottomettere la concupiscenza e da essere vincolato dalla necessità di morire. In tal modo, ciò che l’uomo è divenuto per colpa e pena, proprio questo, genera ogni uomo soggetto al peccato e alla morte” (Ivi).
A questo punto Agostino inserisce la questione che riguarda la morte dei martiri. Quella morte non va considerata pena del peccato: “E questo non perché la morte, che prima era un male, sia diventata in un certo senso un bene. Ma Dio ha conferito alla fede una così grande grazia che la morte, che consta essere il contrario della vita, diventasse strumento per transitare alla vita” (De civ. Dei, XIII, 4). Certo, i martiri e i buoni affrontano la morte con dignità, benché la morte, intesa come separazione dell’anima dal corpo, non sia per nessuno un bene in sé. Ne dà la ragione: “La violenza stessa, mediante la quale viene divelto ciò che era stato congiunto e intrecciato nel vivente (entrambe le realtà, quella del corpo e quella dell’anima), finché perdura, ha una percezione di asprezza e contro natura, fino al momento in cui viene strappata la percezione insita nello stesso abbraccio tra l’anima e il corpo” (De civ. Dei, XIII, 6). Di conseguenza, per i martiri e i buoni la morte modifica il proprio identikit. Se infatti essa “viene sopportata per la pietà, la giustizia, diventa gloria per chi rinasce. E pur essendo la morte retribuzione del peccato, talora impetra che non venga retribuito nulla al peccato” (Ivi). Agostino conclude pertanto: se la morte viene considerata nel dopo morte, si potrebbe dire che “è un male per i cattivi e un bene per i buoni” (De civ. Dei, XIII, 8).

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