Condiscepoli di Agostino
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Che cos’è il morire?

Agostino cerca di approfondire il senso del morire, sia quello fisico sia quello spirituale: “Finché gli uomini hanno la percezione, certamente sono ancora in vita, e se sono ancora in vita si deve dire che sono prima della morte e non nella morte...

Parole chiave: La città di Dio (66), Sant'Agostino (175)

Agostino cerca di approfondire il senso del morire, sia quello fisico sia quello spirituale: “Finché gli uomini hanno la percezione, certamente sono ancora in vita, e se sono ancora in vita si deve dire che sono prima della morte e non nella morte. Quando infatti verrà quella, strappa via ogni percezione del corpo, che è molesta al suo avvicinarsi. Per questo ci è difficile spiegare in che modo diciamo morenti coloro che non sono ancora morti, ma sono travagliati nell’imminenza della morte da una già estrema e mortifera afflizione, benché rettamente si chiamino morenti, dal momento che, una volta sopraggiunta la morte che li sovrasta, sono considerati non morenti ma morti.  Pertanto, non sta per morire se non chi è in vita… la stessa persona perciò simultaneamente è morente e vivente, ma sul punto che la morte accede e la sua vita cede… Infatti, non c’è nessun morente, se nessuno può essere simultaneamente morente e vivente” (De civ. Dei, XIII, 9). Il paragrafo successivo sembra dar ragione al poeta Leopardi, anticipato di quattordici secoli, quando fa coincidere il giorno della nascita con il giorno del funerale di chi è appena venuto al mondo: “Dentro covile o cuna – è funesto a chi nasce il dì natale” (Canto notturno di un pastore errante nell’Asia). Di fatto, la vita è una corsa inarrestabile verso la morte e l’uomo è più morente che vivente. Ecco il testo: “Dal momento in cui si comincia ad essere in questo corpo destinato a morire, mai si agisce in modo tale che non venga la morte… Certamente non vi è nessuno che non le sia più vicino l’anno dopo che l’anno prima e domani rispetto ad oggi, e l’oggi rispetto a ieri, poco dopo che ora e ora che poco prima. In effetti, tutto il tempo che si vive, viene detratto dallo spazio del vivere e ogni giorno diventa meno e sempre meno ciò che resta, sicché il tempo di questa vita non è assolutamente altro che una corsa verso la morte, nella quale a nessuno è permesso di fermarsi un pochino o di andare con passo più lento; ma sono tutti incalzati da un moto uguale e non sono sospinti da un diverso avvicinamento… Certo, da quando un uomo comincia ad essere in questo corpo, è nella morte. Che cosa infatti si fa nei singoli giorni, ore, minuti, finché sia consumata quella morte che si conduceva e si compiva e incomincia già il tempo dell’essere dopo la morte, che, mentre la vita veniva detratta, era nella morte? Mai dunque l’uomo è in vita, da quando è in questo corpo morente piuttosto che vivente, dal momento che non può simultaneamente essere in vita e in morte. O piuttosto è simultaneamente in vita e in morte? In vita cioè, nella quale vive finché non gli venga totalmente detratta. Ma in morte, poiché già muore mentre gli viene detratta la vita” (De civ. Dei, XIII, 10). Sta di fatto che la morte “ora non solo c’è, ma è anche talmente molesta che non si può spiegare a parole né evitare per nessuna ragione” (Ivi). Ma, dopo aver riflettuto sul senso del morire fisico, Agostino riporta l’attenzione sulla seconda morte: “Essa, infatti, è più grave e assolutamente peggiore rispetto a tutti i mali. Non avviene per separazione dell’anima e del corpo, ma piuttosto nell’amplesso di entrambi per la pena eterna. Lì, al contrario, non ci saranno uomini prima della morte e dopo la morte, ma sempre nella morte. E per questo mai viventi, mai morti, ma senza fine morenti. Mai infatti per l’uomo ci sarà di peggio nella morte, che dove ci sarà la morte, essa stessa sarà senza fine” (De civ. Dei, XIII, 11.2).

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