Condiscepoli di Agostino
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La giustizia è fondamento della pace nello Stato

La pace è garantita dalle virtù cardinali. In particolare dalla giustizia. A tale proposito Agostino riprende il filo interrotto del suo secondo libro quando aveva riportato un pensiero di Cicerone espresso nel De Repubblica...

Parole chiave: Condiscepoli di Agostino (100), La città di Dio (66)

La pace è garantita dalle virtù cardinali. In particolare dalla giustizia. A tale proposito Agostino riprende il filo interrotto del suo secondo libro quando aveva riportato un pensiero di Cicerone espresso nel De Repubblica: “Non è mai esistito uno Stato Romano” (Cfr. De civ. Dei, XIX, 21.1). In effetti, Cicerone definisce in sintesi lo Stato come la cosa del popolo. Agostino ne riafferma il concetto e ne dà la spiegazione: “mai fu cosa del popolo” (Ivi). Fa sua una definizione più articolata di Cicerone, il quale ha definito popolo “l’unione di una moltitudine sulla base del consenso del diritto e consociata dalla comunanza degli interessi” (Ivi) e ribadisce il suo convincimento, mostrando che “non si può gestire uno Stato senza la giustizia; dove pertanto non c’è vera giustizia, nemmeno può esserci il diritto. Ciò che si fa per diritto certamente è fatto con giustizia; ciò che viene fatto contro la giustizia, non può essere fatto secondo diritto” (Ivi). Alcuni ritengono erroneamente “diritto ciò che promuove l’interesse del più forte” (Ivi). In realtà viene a mancare la giustizia, il diritto e perciò il senso della cosa del popolo, ridotto ad “una moltitudine indegna del nome di popolo” (Ivi). Di conseguenza, “se lo Stato è del popolo e il popolo non è consociato dal consenso del diritto, ma non c’è il diritto dove non c’è giustizia, si conclude senza dubbio che, dove non c’è giustizia, non c’è Stato. Ovviamente, la giustizia è quella virtù che distribuisce a ciascuno il suo. Che giustizia dell’uomo è pertanto quella che sottrae al Dio vero lo stesso uomo e lo assoggetta ai demoni immondi? È questo distribuire a ciascuno il suo? Forse che colui che porta via il fondo a colui dal quale è stato comperato e lo consegna a colui che non vi ha nessun diritto è ingiusto e colui che si sottrae al dominio di Dio, dal quale è stato fatto, e si mette a servizio degli spiriti maligni è giusto?” (Ivi). Ma poiché “è ingiusto che gli uomini siano sottomessi al potere di altri uomini” (De civ. Dei, XIX, 21.2), anche lo Stato non dovrebbe sottomettere, nel senso di dominare, i sudditi. In realtà, si obietta dal punto di vista della storia che “soltanto mediante l’ingiustizia lo Stato può essere costituito e amministrato… se non applica l’ingiustizia non può signoreggiare sulle province” (Ivi). Purtroppo, al di là di ogni ragionamento arzigogolato, si deve riconoscere che “i Romani si sono sottomessi a demoni malvagi e impuri” (Ivi), invece che sottomettersi al Dio vero, di cui i profeti hanno predetto gli eventi. È il Dio di Abramo, dalla cui discendenza è nato Gesù Cristo; il Dio che in Cristo ha costituito la Chiesa, oggi diffusa su tutta la terra; il Dio che lo stesso Porfirio, filosofo assai dotto, ammette come il grande Dio (Cfr. De civ. Dei, XIX, 22). Porfirio era accanito avversario del cristianesimo, mentre era favorevole all’ebraismo come vera religione. Ebbene, nella sua Filosofia degli oracoli, introdusse un suo personaggio “che chiedeva quale dio doveva rendersi propizio, perché la moglie apostatasse dal Cristianesimo” (De civ. Dei, XIX, 23.1). Al che Apollo diede questa risposta: “Forse potrai più facilmente scrivere nell’acqua con lettere stampate… che dissuadere il sentimento dell’empia moglie depravata” (Ivi). Stranamente, osserva Agostino, Porfirio parla bene di Cristo, accolto tra gli immortali dagli dei, mentre calunnia i cristiani come depravati, corrotti, imprigionati nell’errore (Cfr. De civ. Dei, XIX, 23.2). In realtà, Porfirio ammette Cristo come uomo, ma non come Dio mediatore tra Dio e gli uomini e, come Celso e Giamblico, si adopera perché gli uomini non si facciano cristiani (Cfr. De civ. Dei, XIX, 23.3). Riconosce invece e onora Dio Padre (Cfr. De civ. Dei, XIX, 23.4).

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