Condiscepoli di Agostino
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La beatitudine: il fine della vita da tutti ricercato

Il libro diciannovesimo de La città di Dio è imperniato sul tema della pace, coniugato in tutte le sue svariate sfaccettature, e trattato con una profondità quale è difficile riscontrare in altri autori...

Parole chiave: Mons. Giuseppe Zenti (310), Vescovo di Verona (245), Sant'Agostino (175), La Città di Dio (66)

Il libro diciannovesimo de La città di Dio è imperniato sul tema della pace, coniugato in tutte le sue svariate sfaccettature, e trattato con una profondità quale è difficile riscontrare in altri autori. Chiunque intenda affrontare il tema della pace non può esimersi dal farvi esplicito riferimento. Il tutto trova avvio dal fine della propria vita, che l’uomo trova impellente dentro di sé, metafisicamente: raggiungere il sommo bene ed evitare il sommo male, poiché nel sommo bene sta la somma beatitudine, mentre nel sommo male sta la somma infelicità.

Dopo aver precisato che “il fine del nostro bene è quello per cui si devono desiderare tutti gli altri beni ed esso per se stesso e il fine del nostro male è quello per cui si devono evitare tutte le altre cose, ed esso per se stesso” (De civ. Dei XIX, 1.1), Agostino conclude: “Pertanto, questi sono i fini: il sommo bene e il sommo male” (Ivi). Anche presentando le tre possibilità di impiegare il tempo, nella pura attività, nella pura contemplazione della verità o nel loro intreccio, Agostino suggerisce di avere comunque sempre davanti alla mente il fine della vita, cioè il raggiungimento del bene e della beatitudine: “Anche in quei tre generi di vita, cioè uno non pigramente libero da attività, ma occupato nella contemplazione o nell’investigazione della verità, l’altro attivo nella gestione delle cose umane (degli affari), il terzo temperato da ambedue i generi, quando si cerca che cosa dei due sia piuttosto da scegliere, non c’è da discutere sul loro fine buono, ma che cosa di questi tre presenta in termini di difficoltà e di facilità per conseguire o conservare il fine del bene. Il fine del bene, quando ognuno vi è giunto, rende immediatamente beato” (De civ. Dei XIX, 19.2).

Ovviamente, nella complessità delle teorie e nella varietà del vivere il tempo, si percepisce al fondo la tensione tra stoici che avevano come ideale l’apatheia, cioè la non sofferenza, la quiete, ed epicurei che facevano dell’atarassia (vivere senza sofferenze e sconvolgimenti), cioè in ultima analisi del piacere, lo scopo della vita. Opportunamente Agostino fissa l’attenzione sulla dottrina della Chiesa, la città di Dio, nei riguardi del fine del bene e del male: “essa risponderà che la vita eterna è il sommo bene, mentre la morte eterna è il sommo male” (De civ. Dei XIX, 4.1). Di conseguenza, “per raggiungere quella e per evitare questa è necessario vivere rettamente” (Ivi). Va da sé, osserva Agostino, che il raggiungimento del sommo bene esige l’aiuto di Dio, che è il sommo bene. Al contrario, i filosofi che ritengono che il sommo bene sia raggiungibile in questa vita, in quanto personificato o nell’anima o nel corpo, o in entrambi, o nel piacere o nella virtù. In realtà, vogliono rendersi felici da se stessi (Cfr. Ivi). Ma è possibile evitare tutte le sofferenze di questa vita, al fine di raggiungere qui il sommo bene? Bisognerebbe che tutti gli impulsi originari di natura potessero realizzarsi al meglio. In realtà, la vita è costellata di sofferenze di ogni genere, fisiche, morali, psicologiche, e Agostino ne segnala alcune, tra le quali lo sconvolgimento delle spinte o istinti naturali che offuscano la mente e alterano la coscienza (Cfr. De civ. Dei XIX, 4.2).

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