Condiscepoli di Agostino
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Da che parte si schieravano gli dei corrotti?

Ad una lettura affrettata e superficiale, il libro terzo appare come la narrazione erudita della storia di Roma, a cominciare dalle sue origini troiane fino a Cesare Ottaviano Augusto. Che sia una trattazione erudita non ci sono dubbi, intessuta come è di estratti principalmente da Sallustio, Varrone (“il più dotto dei romani”, De civitate Dei III,4) e Polibio. Ma l’intento di Agostino non è di natura storica...

Ad una lettura affrettata e superficiale, il libro terzo appare come la narrazione erudita della storia di Roma, a cominciare dalle sue origini troiane fino a Cesare Ottaviano Augusto. Che sia una trattazione erudita non ci sono dubbi, intessuta come è di estratti principalmente da Sallustio, Varrone (“il più dotto dei romani”, De civitate Dei III,4) e Polibio. Ma l’intento di Agostino non è di natura storica, bensì di teologia della storia. Sostanzialmente, entra nella complessità di tale storia con l’occhio dell’uomo di cultura e del teologo fornito di ragioni fondate per apportare una critica severa sì, ma oggettivamente razionale, nei confronti dei convincimenti dei pagani che gli dei erano la fonte del benessere temporale. Di qui il culto del politeismo sostenuto dalle leggi statali. Per questo Agostino dedica il libro terzo alla critica sul comportamento degli dei, come viene descritto dai poeti.
In realtà, gli dei non si sono mostrati interessati alle vicende del popolo romano pagano: “Gli dei falsi non si curavano affatto di venire in soccorso del popolo che li venerava, affinché fosse oppresso al minimo dal cumulo di mali; al contrario, hanno agito piuttosto in modo che ne fosse oppresso al massimo” (De civitate Dei III,1). Quali mali? Agostino precisa: “Quei soli mali che non vogliono subire, come la fame, la malattia, la guerra, l’espropriazione, la schiavitù, la carneficina ed altri simili” (Ivi). E mette in evidenza che i pagani non si vergognavano affatto di annoverare l’essere malvagi fra le cose che ritenevano beni. Sicché, “si stizziscono di più se hanno in pessimo stato una villa piuttosto che la vita, come se il massimo dei beni dell’uomo sia avere buone tutte queste cose, eccetto se stesso” (Ivi). Eppure, osserva Agostino, gli dei non impedirono quei mali e tante altre sventure. Nemmeno ai Romani, fin dalle loro origini troiane.
A questo punto Agostino si fa acuto e implacabile giudice di un culto assurdo. Annota, ad esempio, che Greci e Troiani avevano le stesse divinità. Perché dunque queste hanno abbandonato al saccheggio e alla distruzione Troia in favore dei Greci? (Cfr. De civitate Dei III,2). Gli dei, descritti nei loro atteggiamenti immorali, falsi e spergiuri, appartengono al mondo dei miti, venerare i quali è da vergognarsi. Immoralità degli dei? Oltre che tradirsi tra di loro, si uniscono persino ad esseri umani per dare origine agli eroi e ai superuomini. È il caso di Enea, che è figlio di Anchise e di Venere; il caso di Romolo, che è figlio di Marte e della figlia di Numitore! (Cfr. De civitate Dei III,3.5). D’altra parte, obietta, se gli dei sono immorali, non possono non sopportare gli adultéri umani: “In che modo possono dispiacere agli dei gli adultéri degli uomini, che praticano concordemente tra di loro stessi?” (De civitate Dei III,5).
Se è vero che gli dei hanno abbandonato Troia a causa dell’adulterio di Paride, colpevole di aver rapito la moglie di Menelao re di Sparta, Elena, causa della guerra di Troia, perché hanno approvato l’omicidio del fratello Remo da parte di Romolo? “Perché dunque un rapitore della moglie altrui provocò l’ira degli dei contro i Troiani, e l’uccisore di suo fratello attirò la tutela degli stessi dei sui Romani?” (De civitate Dei III,6). L’incongruenza e l’assurdità appaiono palesi. Sempre restando in tema di protezione da parte degli dei, Agostino rammenta la distruzione per incendio di Troia e il massacro feroce dell’intera popolazione da parte di Fimbra, un generale del partito di Mario. E questo, non più per opera dei Greci, ma di quei Romani che da Troia avevano avuto origine e ancora avevano i medesimi dei!
Da che parte erano dunque schierati gli dei? Gli dei si dimostrarono adulatori dei fortunati e violenti e non difensori degli sventurati più deboli, eppur sempre loro adoratori (Cfr. De civitate Dei III,7). Agostino, con sottile ironia pedagogica, obietta che se gli dei erano a Roma quando Fimbra distrusse Troia, “erano forse a Troia quando Roma stessa fu presa e incendiata dai Galli?” (De civitate Dei III,8), oppure, ironizza Agostino, sono rientrati di corsa a Roma allo starnazzare delle oche? (Cfr Ivi).

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