Condiscepoli di Agostino
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Gli dei indifferenti alle sorti di Roma

Gli dei dunque sono stati il baluardo di Roma! Hanno, ad esempio, assicurato un regno di pace al re Numa Pompilio! Obiezione accolta da Agostino, il quale si permette di precisare: “Un grande beneficio è la pace, ma è un beneficio del Dio vero, per lo più come il sole, come la pioggia e la vita e gli altri aiuti sopra gli ingrati e sopra i malvagi” (De civitate Dei, III,9)...

Parole chiave: Mons. Giuseppe Zenti (309), Vescovo di Verona (244), La città di Dio (66), Sant'Agostino (172)

Gli dei dunque sono stati il baluardo di Roma! Hanno, ad esempio, assicurato un regno di pace al re Numa Pompilio! Obiezione accolta da Agostino, il quale si permette di precisare: “Un grande beneficio è la pace, ma è un beneficio del Dio vero, per lo più come il sole, come la pioggia e la vita e gli altri aiuti sopra gli ingrati e sopra i malvagi” (De civitate Dei, III,9). E perché allora, si interroga Agostino, gli dei hanno concesso solo a Numa Pompilio questo tempo prolungato di pace, quarantatrè anni, e mai più, almeno fino a Cesare Ottaviano Augusto, al punto da sospettare che Roma avesse dal destino la vocazione alla guerra? (Cfr Ivi). Certo, i Romani erano orgogliosi di appartenere ad un impero reso glorioso dalle guerre vinte. Grande impero, osserva Agostino, ma senza pace! (Cfr De civitate Dei, III,10). A onor del vero, precisa Agostino con il suo senso di realismo, non fu per la volontà degli dei che Roma viveva in pace o in guerra, ma per le decisioni dei popoli confinanti (Cfr Ivi). Non contenti e soddisfatti dei già numerosi dei, Roma ne introdusse altri perché ne fossero i tutori: “Roma dunque, posta sotto il presidio di così numerosi dei non avrebbe dovuto essere agitata e afflitta da così grandi e orrende stragi, di cui fra poco citerò alcuni casi” (De civitate Dei, III,12). E siamo al ratto delle Sabine! Come mai, si chiedeva Agostino, nemmeno Giunone, Giove e Venere che ne erano gli dei tutelari, non sono riusciti ad ottenere per i Romani matrimoni secondo la legittima istituzione? Mancavano donne a Roma, si obiettava. Dunque, furono rapite dalla popolazione vicina con una sortita ingannevole. Di qui la guerra infinita con i Sabini. Mettendo in guerra gli uni contro gli altri, i padri e i fratelli delle donne rapite con i loro attuali mariti. Quanto spargimento di sangue! (Cfr De civitate Dei, III,13). E la distruzione di Albalonga? La sfida tra Orazi, romani, e Curiazi, albani! Quali intrecci di parentele e matrimoni! Ma in guerra tra popoli che si stavano amalgamando attraverso i matrimoni! (Cfr De civitate Dei, III,14,1.2). Non c’è dubbio che in tal modo “codesta libidine del dominare agita e atterra il genere umano con grandi mali” (De civitate Dei, III,14,2). Conclude Agostino con una postilla che stigmatizza il ruolo degli dei: “Nessuno dunque di loro regnò in pace sotto il presidio di così numerosi dei” (De civitate Dei, III,14,3). Di fatto, precisa Agostino, gli dei hanno abbandonato tutti i primi sette re di Roma, morti uccisi, eccetto Numa Pompilio e Anco Marzio, morti per malattia (Cfr. De civitate Dei, III,15,1-2). E ciò che fu da loro conquistato “con molto sangue e grandi sventure” fino a Tarquinio il Superbo fu poco più di un fazzoletto di terra: “non estesero il dominio oltre le venti miglia dalla città” (De civitate Dei, III,15,2).
Lo storico Sallustio, da cui attinge Agostino, si fa interprete del proseguo della storia di Roma. Rileva la profonda crisi della società romana. Fino “alla Seconda Guerra punica non cessarono di sconvolgerla le guerre dall’esterno e le discordie e sedizioni civili dall’interno” (De civitate Dei, III,17,1). Seguirono infatti le lotte tra patrizi e plebei. Una assurda sperequazione di privilegi e di consumismo diede origine alle sommosse dei Gracchi, alle guerre servili e alle guerre sociali (Cfr. Ivi). Al dire di Sallustio: “Si ebbero moltissimi tumulti, sedizioni e guerre civili… tutti erano depravati, ma il più ricco e più capace di commettere ingiustizia era considerato onesto perché difendeva lo stato presente delle cose” (Ivi). E gli dei tutelari di Roma non se ne curavano affatto.

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