Condiscepoli di Agostino
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Il mondo pagano venerava dèi corrotti e depravati

Inoltrandoci passo dopo passo nella conoscenza dell’opera grandiosa di Agostino, La città di Dio, procediamo in modo da raccogliere il fior fiore dell’opera, senza indugiare sui singoli paragrafi. Per una migliore comprensione dei testi seguenti, è opportuno ricordare che appartengono a quei cinque libri nei quali Agostino fa una disanima serrata del mondo pagano, che riscontra in molti aspetti alquanto inumano nella sua immoralità...

Parole chiave: La città di Dio (66), Sant'Agostino (187), Mons. Giuseppe Zenti (325), Vescovo di Verona (247)

Inoltrandoci passo dopo passo nella conoscenza dell’opera grandiosa di Agostino, La città di Dio, procediamo in modo da raccogliere il fior fiore dell’opera, senza indugiare sui singoli paragrafi. Per una migliore comprensione dei testi seguenti, è opportuno ricordare che appartengono a quei cinque libri nei quali Agostino fa una disanima serrata del mondo pagano, che riscontra in molti aspetti alquanto inumano nella sua immoralità. Dopo aver passato in rassegna quanto pare a me davvero significativo del libro primo, ecco ora alcuni testi antologici del secondo libro. Esso si apre sostanzialmente con una critica severa alla vergognosa immoralità pagana che negli dei trovava la piena giustificazione. Il libro si concluderà invece con uno straordinario affresco della città di Dio. Ma intanto esaminiamo la prima parte. Gli dei pagani hanno permesso comportamenti umani orrendi e detestabili, senza mai intervenire con severe proibizioni che funzionassero almeno da deterrente: “Da ciò deriva il fatto che quei numi non si curarono della vita e dei costumi delle città e delle popolazioni da cui erano venerati, al punto da permettere di riempirsi di così orrendi e detestabili mali avvenuti non nei campi o nelle vigne, non in casa e nei confronti del denaro, infine nemmeno nello stesso corpo che si sottomette alla mente, ma nella stessa mente, nello stesso animo che regge la carne, e da diventare pessimi, senza alcuna proibizione capace di incutere paura” (De civitate Dei, 2,6).
Certo, se gli dei si mostravano esempio di immoralità, almeno lo Stato avrebbe dovuto mettere rimedio alla depravazione del popolo a cominciare dai giovani, almeno per darsi consistenza e vigore. In realtà, precisa Agostino, lo stesso Stato romano divenne sempre peggiore, dalla fine delle guerre puniche, trascinando la gioventù nella corruzione: “Ed ecco lo Stato romano mutato un po’ alla volta, da bellissimo e ottimo divenne pessimo e radicalmente depravato. Ecco prima dell’avvento di Cristo, dopo la distruzione di Cartagine i costumi degli antenati non poco alla volta ma a modo di torrente andarono alla rovina al punto che la gioventù si lasciò corrompere dal lusso e dall’avarizia” (De civitate Dei, 2,19).
Segue una pagina in cui Agostino mette a nudo la depravazione allucinante che per secoli ha dominato a Roma. Gli dei romani erano protettori di uno Stato depravato, intento esclusivamente a garantire ricchezze e piaceri carnali e insensibile verso i poveri, ridotti a clienti: “In realtà tali adoratori e amanti di questi dei, dei quali si vantano di essere anche imitatori nelle scelleratezze e nelle azioni turpi, in nessun modo si curano del fatto che lo Stato sia pessimo e del tutto depravato: «Basta che stia in piedi, basta che sia florido, ripieno di ricchezze… i poveri si inchinino davanti ai ricchi… i ricchi abbondino di poveri come clientela e come servitori del loro orgoglio. I popoli applaudano non a coloro che provvedono ai loro interessi ma a coloro che elargiscono piaceri. Non si comandino loro cose difficili e non si proibiscano le cose impure... Abbondino le pubbliche prostitute, sia per tutti coloro che abbiano piacere di fruirne, sia soprattutto per coloro che non possono averne di private. Si costruiscano ville grandissime e piene di ornamenti, si tengano frequentemente sontuosi banchetti dove a chiunque piaccia e se lo possa permettere di giorno e di notte si dedichi al gioco, al bere, al vomito e si sfinisca»… Chi, se è sano (di mente), potrebbe paragonare questo stato non dirò all’Impero Romano ma persino alla reggia di Sardanapalo? Lui che un tempo re fu talmente dedito ai piaceri che nel suo sepolcro fece scrivere che da morto aveva quelle sole cose che la sua libidine, anche quando era in vita, aveva consumato fino a svuotarle” (De civitate Dei, 2,20).

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