Commento al Vangelo domenicale
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Lavorare la vigna del Padre equivale a sentirla nostra

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

Lavorare la vigna del Padre equivale a sentirla nostra

Per comprendere adeguatamente il Vangelo proclamato questa domenica è opportuno considerare anche il contesto nel quale è inserito. Gesù è arrivato a Gerusalemme, città nella quale è stato accolto come Messia da una folla festante; qui ha cacciato dal tempio coloro che, a suo avviso, stavano rendendo il luogo di preghiera una spelonca di ladri. Le autorità religiose a motivo di ciò sono furibonde e chiedono al Nazareno con quale autorità faccia e dica certe cose, ma non ottengono risposta. Il Maestro, di contro, domanda loro di esprimersi rispetto a Giovanni Battista e alla provenienza del suo insegnamento (dal cielo o dalla terra); in questa occasione sono i capi religiosi a restare in silenzio. Gesù, quindi, si rivolge a loro con tre parabole: quella dei due figli, proclamata nella liturgia di questa domenica, quella dei vignaioli omicidi, infine quella degli invitati al banchetto di nozze (Mt 21,28-22,14).
L’inizio della parabola odierna è preceduto dalla domanda «Che ve ne pare?» che costituisce una sorta di introduzione/invito a pensare, a fare discernimento su ciò che sta per essere narrato. Tale formula, assieme alla domanda su «quale dei due figli ha fatto la volontà del padre» (Mt 21,31a), crea una cornice per l’intero racconto. La storia, pur non trovando paralleli negli altri due Vangeli sinottici, è piuttosto nota: un padre chiede ad entrambi i figli di andare a lavorare nella vigna; il primo si oppone, rifiuta l’invito del genitore, ma in seguito si pente e va a fare quanto richiesto; il secondo dapprima risponde in maniera affermativa alla proposta del padre ma successivamente se ne va. Ancora una volta la narrazione del Nazareno procede accentuando posizioni in netto contrasto tra loro: alla risposta consapevolmente ribelle, irriverente del primo figlio segue il cambio di opinione, il ravvedimento che trasforma la mancanza di voglia di svolgere un compito in una decisione di obbedienza; mentre all’assertività rispettosa e formale del secondo figlio segue il nulla, il silenzio, l’assenza nella vigna. Incalzati dalla domanda su chi ha realizzato la volontà del padre, i sacerdoti e gli anziani rispondono in modo piuttosto scontato riferendosi al primo figlio. Gesù, a questo punto, invita gli astanti a trarre le conseguenze affermando che pubblicani e prostitute passeranno avanti a loro nel regno di Dio.
Sono parole dure, che pesano come macigni agli orecchi degli ascoltatori. Il Maestro contrappone sacerdoti e anziani, coloro che al tempo erano ritenuti i più prossimi a Dio, i primi nella scala sociale, ai pubblicani e alle prostitute, che appartenevano al novero degli esclusi, di quelli da relegare ai margini della società. Viene da chiedersi come sia possibile e quale senso abbiano tali parole.
Gesù intende provocare una riflessione in merito a ciò che accade tra i credenti giudei. Ci sono coloro che appaiono pubblicamente peccatori, che sono oggetto costante del giudizio altrui e sentono il desiderio di cambiare vita, di avere bisogno di conversione. Al contempo ci sono alcuni uomini religiosi e devoti che vantano una appartenenza confessionale in virtù della quale si palesano come osservanti mentre nella realtà mantengono una adesione di facciata perché non ritengono di necessitare di alcuna conversione alla volontà di Dio. Ci sono coloro che vivono la docilità al Padre senza quasi nominarlo e coloro che hanno spesso il suo nome sulle labbra ma mantengono il cuore indurito e sordo rivelandosi militanti che hanno dimenticato di dover farsi discepoli. Pare, quindi, che l’accento di questa narrazione parabolica vada a toccare il rapporto tra il “dire” e il “fare” che sovente ritorna come tema nella tradizione biblica e giudaica. Portare a compimento la volontà di Dio implica la necessità di tradurre in azioni e gesti concreti quanto si dice, non è qualcosa che può limitarsi a fare proclami.
Ciascun credente anche oggi, di fronte a questo testo evangelico è chiamato a interrogarsi, a fare verità in se stesso riguardo alla sua capacità di adesione al Signore: è un sì formale, di facciata, oppure una realtà che dà sostanza e orienta la sua vita? La sua è una testimonianza costituita di parole e ritualità ben visibili, oppure prende forma fuori dal clamore e dall’ostentazione, nell’umiltà e nella semplicità del quotidiano?

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