Commento al Vangelo domenicale
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L’addio di Gesù è piuttosto un arrivederci

Giovanni 14,1-12

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

Parole chiave: Vangelo (387), Vangelo della Domenica (274), V Domenica di Pasqua (5)
L’addio di Gesù  è piuttosto un arrivederci

L’evangelista Giovanni, nei capitoli che vanno dal 13 al 17 della sua opera, in occasione dell’ultima cena presenta alcuni discorsi che Gesù indirizza ai discepoli con l’intento di prepararli alla sua imminente dipartita.
Ricalcando uno schema ampiamente conosciuto e utilizzato in ambito biblico e giudaico, l’autore ricorre al genere letterario del “discorso di addio” o testamento. Tale tipologia di scritto segue solitamente uno schema fisso in cui dall’annuncio della prossima morte del padre o del maestro si passa alla rievocazione del passato; quindi, si esorta ad osservare i comandamenti e si ammoniscono gli uditori rispetto ai rischi e alle ostilità che si potranno presentare; infine, si conclude con una preghiera e una benedizione. Nell’Antico Testamento sono presenti diversi discorsi di addio da parte dei personaggi di maggior rilevanza nei confronti dei loro figli o successori, basti pensare al discorso di Noè, o a quello di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè, di Davide.
All’interno del Vangelo, però, il genere testamento presenta una sostanziale novità e differenza: Colui che espone le sue volontà, Gesù, dopo la morte non si sottrae in maniera definitiva ai suoi discepoli, ma grazie allo Spirito e all’amore che lo lega ai Dodici continua a rendersi presente in una nuova relazione nutrita dalla fede. Nei confronti del Nazareno, pertanto, piuttosto che di addio, si dovrebbe parlare di discorso di arrivederci anche perché la sua assenza è presentata come necessaria alla preparazione di un posto presso la casa del Padre. Le parole di Gesù hanno lo scopo di incoraggiare, sostenere e consolidare la fede dei discepoli che in questo momento sono avvolti dalla paura. È notte, non solo dal punto di vista temporale – tutto questo è collocato al seguito dell’ultima cena –, ma anche e soprattutto dentro di loro: essi stanno vivendo l’ora buia della prova, la piccola comunità che costituiscono è attraversata dalla crisi e la speranza della fede sembra essere preclusa. Gesù di tutto ciò è consapevole, perciò esorta i discepoli affinché il loro cuore non sia turbato. Il verbo che l’evangelista utilizza è lo stesso cui ha fatto ricorso per descrivere lo stato di Gesù al momento della morte di Lazzaro (Gv 11,33) e anche all’annuncio del tradimento di Giuda (Gv 13,21): tutte situazioni che hanno a che fare con la morte. Ora questo stesso stato di turbamento passa ai discepoli e al Maestro non rimane che cercare di evidenziare il senso profondo del suo morire: l’andare a preparare loro un posto.
Tommaso, che sembra davvero porsi come gemello del lettore del quarto Vangelo, chiede, quindi, di conoscere il cammino, quasi come desiderasse inserire il nome della destinazione in un navigatore che poi indirizza sulla strada più veloce. Il Maestro risponde con una auto-rivelazione («Io sono») affermando di essere Lui stesso la via, la verità e la vita, ossia la strada per arrivare al Padre. Non si giunge a Dio per poi conoscere Gesù, il percorso è l’inverso: Gesù rivela, dà un volto al Padre e permette di giungere a Lui.
Di nuovo l’evangelista Giovanni ricorre all’artifizio letterario della domanda posta sulle labbra di un discepolo per poter offrire al Nazareno la possibilità di spiegare ulteriormente e meglio ciò che intende. È il turno di Filippo che esprime la domanda che condensa il grande desiderio dell’uomo: vedere Dio. Anche Mosè in Esodo 33 esprime tale richiesta e il Signore risponde rigettando questa opzione. Gesù, invece, ribattendo a Filippo segna un punto di svolta fondamentale: affermare «chi vede me vede il Padre» significa attestare che tra i due protagonisti esiste una comunione tale che vedere l’uno coincide con il vedere l’altro. Il maestro non è solamente l’inviato di Dio, ma in forza della sua relazione filiale, diviene la visione stessa di Dio.
Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Dives in Misericordia (n. 3) scrive: “Cristo rende presente il Padre tra gli uomini. È quanto mai significativo che questi uomini siano soprattutto i poveri, privi dei mezzi di sussistenza, coloro che sono privi della libertà, […] che soffrono a causa dell’ingiustizia sociale, ed infine i peccatori. Soprattutto nei riguardi di questi ultimi il Messia diviene un segno particolarmente leggibile di Dio che è amore, diviene segno del Padre. In tale segno visibile, al pari degli uomini di allora, anche gli uomini dei nostri tempi possono vedere il Padre”.

Dipinto: Cristo Guerriero (495), Cappella Arcivescovile, Ravenna

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