Commento al Vangelo domenicale
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Gesù è il pastore che dà la vita eterna

Giovanni 10,27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Parole chiave: Vangelo (385), IV Domenica di Pasqua (6)

Oggi è la domenica del buon Pastore. A metà del nostro percorso verso la Pentecoste, siamo invitati ad ascoltare e a riconoscere la voce del Pastore che ci chiama verso il nostro vero destino: la vita eterna, che inizia già in questo mondo, ma troverà compimento quando potremo vedere il nostro Dio faccia a faccia.
La vicenda del vangelo di oggi si svolge nel tempio, dove si trova Gesù per la festa della Dedicazione, che commemora la nuova dedicazione del tempio per opera dei Maccabei, nell’anno 164 a.C., dopo la profanazione operata da Antioco IV Epifane. I giudei fanno cerchio attorno a lui e lo provocano perché si identifichi con il Messia, dicendo delle parole che sarebbero servite per la sua condanna ufficiale. Il tutto si svolge, pertanto, in un clima di ostilità e di mascherata persecuzione verso il Signore.
A causa del collegamento col nazionalismo ispirato dalla vicenda dei Maccabei, la festa della Dedicazione aveva un carattere politico particolarmente forte e la domanda circa l’identità di Gesù come Messia poteva certamente portare a un fraintendimento sulla sua persona e sulle sue opere. Per sottrarsi al pericolo di essere identificato con le attese messianiche del suo tempo (di stampo prevalentemente politico-militare) Gesù riprende l’immagine del Pastore, con la quale si era presentato fin dall’inizio del capitolo (il decimo) al quale appartiene il nostro brano evangelico. In tal modo evita di identificarsi apertamente con la figura del re o del capo.
Riproponendo abilmente la figura del pastore, Gesù intende mostrare a quale livello si colloca la sua autorità e quale tipo di relazioni profonde implica il suo servizio. Non è tanto importante il numero di chi appartiene al gregge, quanto la qualità della relazione che si stabilisce; non basta stare dentro il recinto, occorre ascoltare la voce, riconoscerla come proveniente dal pastore, essere capaci di accoglierla e di mettersi in movimento una volta giunto il suo suono familiare all’orecchio: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10, 27).
Il rapporto di appartenenza a Cristo, il buon Pastore, non è garantito dall’iscrizione a un registro di anagrafe e nemmeno da una comune origine di razza o di livello sociale o di nazione. È richiesto un legame che porti a diventare discepoli, che implichi il muoversi ogni volta che viene dato un cenno e si è chiamati, che permetta di entrare in rapporto personale di conoscenza e di amicizia con chi forma il gregge e con gli altri che ne fanno parte. Per sapere se Gesù è il Messia, basta stare al suo seguito e obbedire alla sua voce, lasciarsi veramente guidare dalla sua parola, riconoscere la bontà del suo governo sulla vita di chi gli appartiene. La vera conoscenza della realtà profonda di Gesù non è data tanto da un atto intellettuale ma da una vita condivisa: vivendo di Gesù s’impara a conoscere chi è Gesù.
Nella sua replica ai giudei, Gesù non parla tanto di se stesso, non dice di essere il Messia e non inizia neppure dicendo “Io sono il buon pastore” com’è riportato in precedenza: lascia parlare le sue opere e poi passa a dire delle sue pecore e della loro vera identità. Queste ricevono da lui il dono della vita che nessuno, neppure la morte, può portare via. Accogliere la persona di Gesù e la sua opera è, per ognuna delle pecore, partecipare alla sua stessa vita, rinascere dall’alto, da acqua e Spirito, nutrirsi del suo dono ed essere inseparabilmente unita a lui.
Il Messia-Pastore si preoccupa di dare prova della sua capacità di mantenere in vita coloro che gli sono affidati; lo strettissimo legame tra lui e il suo gregge ha un carattere indissolubile e inscindibile: è eterno. Come Gesù non rimane solo, perché il Padre è sempre con lui, così neppure i suoi discepoli saranno abbandonati alla morte. Il primo che dona la vita andando incontro alla morte è il Figlio: se lui muore, è perché tutti abbiano la vita.
La mano di Gesù, alla fine del brano, s’identifica con quella del Padre, non solo per indicare un rapporto di unità forte e profonda tra il Figlio e il Padre, ma anche per segnalare a chi è consegnato il gregge e che esso è protetto e custodito dalla potenza divina che si alimenta del rapporto di comunione di amore e di vita del Padre con il Figlio. Le mani del Padre e del Figlio, sempre unite tra loro, formano il recinto sicuro del gregge; dall’essere una sola cosa tra il Padre e il Figlio proviene la sicurezza del gregge e la capacità di muoversi dentro questo flusso d’amore e di vita, per il quale nessun uomo può dirsi perduto o escluso.
Tradizionalmente la domenica del buon Pastore, da un punto di vista pastorale ha ricevuto una peculiare sottolineatura vocazionale, con un’attenzione particolare alle vocazioni di speciale consacrazione e fra queste a quelle alla vita presbiterale. Ma ogni vocazione è frutto di particolare attenzione da parte del Pastore ed è frutto della sua attenzione per tutto il gregge. Da qui deriva l’invito a una sincera stima e apprezzamento di ogni vocazione che fiorisce nella Chiesa santa di Dio, senza dimenticare che essendo composta di peccatori salvati, recherà sempre in sé il segno della fragilità. Nessuna vocazione, infine, potrà mai portare i frutti sperati se non è alimentata continuamente da un forte legame col Pastore e se non si alimenta continuamente della sua stessa vita.

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