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Hamas-Israele: ancora violenza, ancora vittime

Riesplode il conflitto tra palestinesi filo-iraniani e israeliani

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Hamas-Israele: ancora violenza, ancora vittime

Il conflitto in atto tra Israele e gruppi armati palestinesi è il più grave dal 2014. Ad alimentarlo, una serie di fattori vecchi e nuovi. L’origine dell’escalation di queste settimane è simile a quella di altri capitoli della guerra, che si muovono seguendo più o meno sempre lo stesso copione: gli scontri tra israeliani e palestinesi a Gerusalemme Est, una delle zone più calde della capitale, accendono la miccia delle violenze fino a coinvolgere la Striscia di Gaza, dalla quale partono razzi diretti verso le città israeliane.
Alle provocazioni, l’esercito dello Stato ebraico risponde con rappresaglie, raid e bombardamenti. Ma questa volta, a fare la differenza, è stato il coinvolgimento della popolazione araba con cittadinanza israeliana, che è scesa in piazza e ha protestato non solo a Gerusalemme Est, ma anche in altre città israeliane come Tel Aviv e Lod.
Inoltre, la potenza di fuoco con la quale l’organizzazione islamista palestinese Hamas ha preso di mira Israele non ha precedenti: per giorni i lanci di razzi sono proseguiti nell’ordine delle centinaia, scatenando una risposta altrettanto violenta e sanguinosa. La recrudescenza del conflitto ha causato un elevato numero di vittime e feriti, compresi decine di civili, donne e bambini.
A Gerusalemme Est, dove sono iniziate le violenze, rivivono in piccolo tutte le contraddizioni della questione palestinese. In questa zona abitano circa 300mila palestinesi e 210mila coloni israeliani in insediamenti considerati illegittimi dal diritto internazionale, secondo il quale Gerusalemme Ovest dovrebbe essere la capitale dello Stato ebraico e Gerusalemme Est dello Stato palestinese. Oltre a ospitare missioni diplomatiche e organizzazioni internazionali, nell’area si trovano alcuni luoghi sacri, rivendicati da entrambi gli schieramenti: la tomba di Al Jarrah, uno dei medici del Saladino, e il sepolcro di Simeone il Giusto, venerato dagli ebrei ultra-ortodossi e invocato per proteggere l’espansione coloniale israeliana.
Ogni palmo di terra è prezioso e la guerra si combatte casa per casa, coinvolgendo non solo strade e piazze ma anche tribunali giudiziari e corti, tra diritti di proprietà, testamenti e atti notarili di epoche passate.
A far precipitare la situazione nelle ultime settimane è stata la solita miscela altamente esplosiva di politica, religione e rivendicazioni territoriali. Tutto è iniziato ad aprile, durante il mese sacro del Ramadan, quando le autorità israeliane hanno deciso di chiudere la piazza antistante la porta di Damasco, a nord di Gerusalemme, introducendo nuovi controlli e restrizioni per l’accesso dei palestinesi alla Città vecchia e alla Spianata delle moschee. Le misure hanno innescato le prime proteste violente da parte della popolazione araba. Nel frattempo sul social network Tik Tok è diventato virale il video di alcuni palestinesi che si facevano beffe di ebrei ultra-ortodossi, scatenando nuove rappresaglie. Negli stessi giorni a Sheikh Jarrah, uno dei principali quartieri di Gerusalemme Est, l’atmosfera era particolarmente tesa: erano state organizzate una serie di veglie in segno di protesta contro l’espulsione forzata di alcune famiglie palestinesi per mano dei coloni ebrei.
In questa zona, diventata simbolo delle espropriazioni ai danni della popolazione araba, lo Stato ebraico sta cercando di riportare nelle mani degli ebrei alcune terre che, secondo i coloni, appartenevano a loro prima del 1948. Il 10 maggio era previsto il verdetto della Corte Suprema – poi rinviato – sul processo relativo a quattro famiglie palestinesi che erano state cacciate dalle loro abitazioni all’inizio dell’anno, proprio nello stesso giorno in cui Israele celebra con parate e manifestazioni la “giornata di Gerusalemme” e l’annessione della città da parte dello Stato ebraico nel 1967.
Le tensioni sono sfociate in una serie di scontri violenti tra popolazione araba e forze dell’ordine israeliane. Quelle che potevano rimanere semplici scaramucce, frequenti nei mesi più caldi dell’anno, sono invece esplose, coinvolgendo la Striscia di Gaza e altre città israeliane, fino a trasformarsi in una vera e propria guerra a tutto campo.
A spiegare il motivo di questa escalation così improvvisa sono anche le delicate situazioni interne vissute dai due schieramenti, israeliano e palestinese. Da due anni lo Stato ebraico è piombato in un’impasse politica: dalle ultime quattro elezioni, tenutesi a distanza di pochi mesi l’una dall’altra, non è mai emersa una chiara maggioranza politica e il premier Benjamin Netanyahu, in carica del 2009, rischia ora di perdere il posto, scalzato da una nuova alleanza di governo. Il potere di Bibi è inoltre insidiato dai processi di corruzione per i quali potrebbe rischiare addirittura il carcere. Alcuni osservatori vedono nella dura risposta di Israele agli attacchi provenienti da Gaza un tentativo da parte di Netanyahu di rimanere in carica e convincere la popolazione che un cambio di leadership in questo momento non sarebbe opportuno.
Anche il fronte palestinese vive una fase di stallo. Sabato 22 maggio si sarebbero dovute tenere le prime elezioni presidenziali e parlamentari degli ultimi 15 anni per il rinnovo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), ora guidata dal presidente 85enne Mahmoud Abbas. La classe dirigente di questa forma “embrionale” di Stato palestinese, mai divenuta tale, è composta prevalentemente da uomini anziani legati allo storico leader Yasser Arafat, morto nel 2004, e poco propensi a cedere il potere.
Il rinvio dell’appuntamento elettorale a data da destinarsi ha scatenato la rabbia di Hamas, organizzazione islamista con sede a Gaza, che con tutta probabilità avrebbe vinto a mani basse. Secondo gli analisti, Hamas starebbe sfruttando le violenze delle ultime settimane per espandere la propria area di influenza, conquistare la leadership sul campo e ottenere il dominio anche in Cisgiordania con la forza.
Al di là dei fattori interni e contingenti delle violenze in atto, le cause della guerra israelo-palestinese rimangono sempre le stesse, da settant’anni a questa parte. La soluzione “due popoli, due Stati” divisi dalla “linea verde” dell’armistizio del 1949 sembra essere definitivamente naufragata. Il principio “pace in cambio di territori”, sostenuto anche dal diritto internazionale, non ha mai trovato piena attuazione.
Dopo la travolgente vittoria nella Guerra dei Sei giorni del 1967, Israele ha messo in atto una politica di colonizzazione massiccia dei territori palestinesi. A differenza della Striscia di Gaza, abbandonata unilateralmente nel 2005, la Cisgiordania è oggi una mappa a macchia di leopardo, con ampie zone sotto il controllo diretto o indiretto di Israele, insediamenti di coloni ultra-ortodossi sorvegliati dall’esercito e villaggi palestinesi isolati l’uno dall’altro. L’Autorità nazionale palestinese, nata dopo gli accordi di Oslo del 1993, non si è mai sviluppata verso un’entità statuale effettiva.
Il risultato è che i diritti civili e politici dei palestinesi sono oggi, di fatto, inesistenti. Non solo nei territori occupati, ma anche in Israele, dove i cittadini arabi sono considerati cittadini di serie B. In un rapporto pubblicato di recente, l’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch ha usato la parola “apartheid” per descrivere l’attuale status quo.
Gli scontri di queste settimane dimostrano che la questione palestinese non è tramontata, nonostante i recenti accordi tra Tel Aviv e altri Paesi arabi e nonostante un consenso pericolosamente ingenuo nato negli ultimi anni, secondo il quale Israele avrebbe fondamentalmente represso il conflitto. Durante i governi Netanyahu, l’idea secondo cui i palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme Est si sarebbero sostanzialmente rassegnati a vivere per sempre sotto il controllo permanente di Israele è stata fatta propria da gran parte dell’opinione pubblica, al punto tale che il conflitto non è mai stato tra i primi punti delle campagne elettorali che hanno lacerato il Paese in questi ultimi anni.
La guerra in atto smentisce però questa retorica e rappresenta un duro ritorno alla realtà. Le violenze sottolineano le contraddizioni di uno Stato che vuole essere al contempo democratico, ebraico e con un territorio che vada dal Mediterraneo al Giordano: tre condizioni impossibili da tenere insieme se non riconoscendo dignità, diritti e uguaglianza anche alla popolazione palestinese.
Come accaduto in passato, al termine della recrudescenza di questi giorni la situazione rimarrà probabilmente invariata: le uniche differenze saranno un bilancio più grave di vittime e feriti e un’ulteriore radicalizzazione delle posizioni interne ai due schieramenti.
A livello internazionale, la questione israelo-palestinese sembra aver perso qualsiasi rilevanza. Il conflitto rimane irrisolto e nessuno sembra essere in grado di trovare una soluzione reale e sostenibile per entrambe le parti: a mancare non sono solo le capacità, ma soprattutto l’interesse… in attesa che una nuova escalation torni a fare capolino sulle prime pagine di tutti i giornali.

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