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Che fine ha fatto il Myanmar?

Dopo il colpo di Stato e le violenze si è spento rapidamente l’interesse mondiale

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Che fine ha fatto il Myanmar?

«Desidero nuovamente implorare il dono della pace per l’amata terra del Myanmar». L’appello di papa Francesco durante l’Angelus domenicale del 3 ottobre suona anche come un monito per un Occidente che archivia troppo velocemente i dossier sui quali era pronto a stracciarsi le vesti. E in Myanmar, l’ex Birmania, la situazione non è per niente migliorata da quando lo scorso 1° febbraio un colpo di Stato militare ha deposto il governo eletto, guidato da Aung San Suu Kyi. Anche per il rilievo internazionale della politica e attivista, premio Nobel per la pace nel 1991, la reazione internazionale allora è stata forte, ma inefficace.

Adesso il Paese corre il rischio concreto di una guerra civile. È del 23 settembre il report di Michelle Bachelet, Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, che stima in più di 1.100 le persone uccise dall’esercito dall’inizio delle proteste, e in 8mila gli arrestati. Dopo che le manifestazioni, all’inizio pacifiche, sono state represse nel sangue anche con l’uso dell’artiglieria pesante, la resistenza armata si sta organizzando sempre più e gli attentati contro obiettivi militari sono ormai all’ordine del giorno.

Dietro ad essi il governo ombra di unità nazionale (Nug) e la sua Forza di difesa del popolo, ma anche le milizie armate delle diverse etnie di minoranza che abitano il Paese, soprattutto nelle zone di confine. La svolta inedita è la convergenza e il coordinamento delle eterogenee forze di ribellione in funzione del comune nemico, la giunta militare guidata dal capo delle forze armate Min Aung Hlaing. Il 7 settembre il presidente del Nug ha infatti invocato una sollevazione generale contro il regime e una «guerra difensiva del popolo» in ogni angolo del Myanmar.

È dunque dubitabile la sincerità delle intenzioni del cessate il fuoco annunciato unilateralmente dal governo golpista a inizio ottobre. La tregua dovrebbe durare fino a febbraio, quando – il 12, Giorno dell’Unione – si svolgeranno i festeggiamenti nazionali per i 75 anni dall’unificazione nazionale e dall’indipendenza dalla Gran Bretagna. Di facciata un “gesto di buona volontà” distensivo, il cessate il fuoco appare più come un segnale delle difficoltà del governo in carica a contenere la resistenza armata. E come un tentativo di guadagnare credito internazionale.

I prossimi mesi si preannunciano burrascosi per un Paese che ha un altissimo livello di militarizzazione e di conflittualità. I regimi militari si sono susseguiti quasi ininterrottamente dal 1962 fino al 2015, anno delle prime vere elezioni in oltre cinquant’anni, dopo quelle soppresse del 1990. Il processo di liberalizzazione è dunque iniziato solo negli ultimi anni, continuamente minacciato dal Tatmadaw, l’esercito birmano, espressione soprattutto dell’etnia maggioritaria del Paese, i Bamar.

Protagonista del processo di democratizzazione è senza dubbio Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia. Dopo anni di reclusione e arresti domiciliari, Suu Kyi, figlia di uno dei principali leader dell’indipendenza birmana, ha ottenuto la vittoria alle elezioni del 2015. La fama internazionale di icona dei diritti umani e della non violenza si è incrinata negli ultimi anni a causa delle politiche di pulizia etnica a danno della perseguitatissima minoranza etnica di religione musulmana dei Rohingya, perpetrate dall’esercito e da lei coperte.

Ma in patria la leader ha raggiunto livelli di popolarità altissimi, che si sono tradotti, nelle elezioni di novembre 2020, in una schiacciante vittoria del suo partito, che ha ottenuto 396 seggi in parlamento su 476. Risultati, questi, contestati dal Partito dell’unione della solidarietà e dello sviluppo, braccio politico dei militari, che ha denunciato gravi irregolarità alla commissione elettorale, senza però ottenere ragione. Poi l’escalation, appunto col colpo di Stato del 1° febbraio, che ha portato all’arresto di Aung San Suu Kyi, al blocco delle telecomunicazioni e di internet – per sabotare i manifestanti, tra cui molti giovani – e all’estensione della legge marziale a molte zone del Paese.

Mentre Save the Children lancia l’allarme per più di 76mila bambini sfollati a causa delle violenze da febbraio e per 6,2 milioni di bambini a rischio fame nei prossimi sei mesi, sul futuro del Myanmar pesa anche l’ipoteca del Covid, che sta colpendo con grande violenza il Paese. Nonché quella degli interessi geopolitici regionali (in particolare quelli della Cina, legati alla Via della seta, all’importazione di metalli preziosi e terre rare, e all’influenza strategica anti-indiana nell’area).

Intanto un segnale di resistenza arriva dal cuore dell’Europa: nella centralissima Place du Palais-Royal, a Parigi, svettano le bandiere birmane sopra un’installazione artistica di sensibilizzazione contro la repressione della giunta militare, intitolata “Fighting Fear: #WhatsHappeningInMyanmar” (nella foto).

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