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In una piccola libreria, luogo di incontri veri

Deborah Meyler
Lo strano caso dell’apprendista libraia
Garzanti - Milano 2014
pagg. 360 – 14,90 euro

In una piccola libreria, luogo di incontri veri

Parto della fantasia dell’esordiente Deborah Meyler, Esme è una giovane inglese dottoranda in storia dell’arte, trapiantata a New York. Già assorbita dagli impegni accademici, ben presto si trova a dover fare i conti con una gravidanza, una relazione complessa, un prevedibile bisogno di denaro che la borsa di studio non riesce a soddisfare del tutto.
 La quadratura del cerchio sembra materializzarsi in una piccola libreria della Grande Mela – “La Civetta” – dove Esme trova il modo di arrotondare, di conciliare le esigenze di studente universitaria e di donna incinta, di entrare nel piacere della lettura e della musica come l’ingresso in una nuvola di vapore balsamico, che la fa respirare e maturare culturalmente e, in senso più ampio, umanamente.
La trama dei rapporti autentici tessuti quotidianamente a “La Civetta” fa giganteggiare per sgradevolezza la figura di Mitchell, il compagno di Esme, il quale brilla come indigesto concentrato di cinismo, superficialità, narcisismo e via patologando, e su cui il lettore non investe emotivamente nemmeno un soldo bucato, se non nella nobile reazione del detestare. Sedotta e abbandonata, la giovane mamma trova nella pittoresca fauna che gestisce e che frequenta la libreria una seconda famiglia, pronta a gareggiare per avere in premio i sorrisi della piccola Georgie, sua primogenita.
  È difficile incontrare un giudizio sul romanzo di Meyler che non sia di elogio, dopo che i librai indipendenti americani l’hanno concordemente indicato come il romanzo dell’anno 2013. Rimane un po’ con l’amaro in bocca chi ha il gusto per le trame ben congegnate, anche se l’apparente consolidarsi del rapporto fra Esme e Mitchell, unitamente al procedere della gravidanza, funge da corda narrativa attorno a cui tutto si annoda.
  Si deve ammettere che alla Meyler riesce un racconto gradevole, in cui si assolve dall’obbligo di dipingere con tratti minuziosi la porzione di New York entro cui si dipana la storia, forse contando sulle frequentazioni almeno cinematografiche dei lettori. Risulta riuscita l’essenziale, ma convincente caratterizzazione dei personaggi che si muovono sullo sfondo de “La Civetta”, siano essi i gestori, i clienti o i clochard che vi trovano e vi portano, in egual misura, calore umano e simpatia. Se la trama pecca per fragilità, non fa difetto all’autrice l’arte di toccare tasti diversi e con una dose esemplare di astuzia. Senza essere implausibilmente elevata ad Eden sociale e culturale, la piccola libreria è presentata come luogo di incontri veri, al netto delle convenzioni che ammorbano l’aria della famiglia di Mitchell, e dove la distanza dalla logica del puro profitto non sconfina mai in una mistica laica della purezza dalla vil pecunia. Attraverso la bocca dei suoi personaggi, la Meyler fa intendere che la propria biblioteca e i propri gusti musicali sono tutto fuorché scontati e banali, ma questo incuriosisce il lettore, più che attrarlo in un vortice di citazioni invincibile e noioso.
Parte ingente dell’impatto piacevole del romanzo è dovuto al raffinato umorismo che lo anima: numerose arguzie concorrono a distinguere, senza ovvi confronti di maniera, le due anime – quella inglese e quella americana – che si trovano improvvisamente a coabitare sotto il medesimo tetto. Sta, anzi, in questo il maggior pregio del libro.
C’è una fibra della trama che merita un’attenzione a parte: la gravidanza. Esme non la accetta senza un ampio armamentario di sensazioni e pensieri che si raggrumano in argomentazioni. Nella necessità di esprimere una preghiera per un barbone scomparso, confessa onestamente le proprie difficoltà sul tema. Alla luce di questa sua posizione che, per comodità, si può definire agnostica, strappa un sorriso la semplicità con cui approda alla decisione di tenere il bimbo. Non interrompendo la gravidanza, ritiene di aver dato una chance ad un possibile Mozart o ad uno Shakespeare. «O un normalissimo, felice essere umano», la incalza il collega Luke.

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