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Il “dirittismo”, una malattia italiana

Alessandro Barbano
Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà
Mondadori
Milano 2018
pagg. 192 - 18 euro

Il “dirittismo”, una malattia italiana

“Ogni volta che si assiste a una grande rivoluzione tecnologica e a una cultura dei diritti che la cavalca, l’effetto è – in verità – quello di una frattura delle culture”. Causa del declino italiano, come spiega il giornalista Alessandro Barbano nel suo libro Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà (Mondadori), sarebbe dunque una “ipertrofia dei diritti”. Un virus che da decenni blocca ogni tentativo della politica e della società di riscattarsi.
“Certo, in passato i diritti individuali sono stati il carburante della nascita, crescita e affermazione delle democrazie, contro gli assolutismi e totalitarismi”, scrive. Ma quando quei diritti sono diventati i princìpi guida delle società, “è emerso anche il loro lato oscuro, favorito oggi dallo sviluppo di innovazioni tecniche che aprono inedite prospettive, ampliando così lo spazio delle aspirazioni del singolo e dei gruppi, e facendo perdere di vista il limite etico insito nel concetto stesso di libertà”.
Un fenomeno, questo “dirittismo”, che l’autore considera una malattia, il cui più evidente sintomo è la crisi della delega, ossia «la rinuncia a qualsiasi mediazione tra gli interessi di uno o di pochi e quelli di tutto il corpo sociale», dice Barbano, di recente ospite a Palazzo Scarpa, sede del Banco Bpm. È quanto accaduto sia in campo politico, dove il dirittismo si è tradotto in aperta diffidenza nella classe dirigente e nel diffuso astensionismo, sia nel campo del sapere, nel quale è venuto meno il criterio della meritocrazia, e ancora, in quello della sanità, vedi il caso del movimento “no vax”. Ma anche, «fatto altrettanto grave», nel campo dei media, dove strumenti come internet, Facebook, Twitter hanno scalzato la mediazione della carta stampata, stravolgendo spesso il messaggio veicolato. «La combinazione di diritti e tecnica si è così tramutata in un fattore di indebolimento e disgregazione della stessa democrazia», sostiene il giornalista.
La ricetta? «Spiegare ai cittadini che il compromesso non è solo un inciucio, ma anche il punto di approdo verso il bene comune di interessi individuali e collettivi. E che le élite non sono solo casta, ma classe dirigente che assume, in nome e per conto degli altri, una responsabilità fondata sul merito».
Con questa severa ma schietta diagnosi, l’autore si fa dunque ambasciatore di un nuovo progetto pedagogico-politico, consapevole altresì che «i processi di automazione e intelligenza artificiale inghiottiranno il 25% dei lavori attuali, allora o la politica armonizza questo processo, costruendo una cultura della flessibilità, o non si risolverà certo il problema delle ineguaglianze crescenti con il reddito di cittadinanza».

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