Il Fatto di Bruno Fasani
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Tempo che la Chiesa guardi dentro di sé per chiarire il suo ruolo

“È un segno di decadenza dei popoli quando gli dei cominciano ad essere comuni”. A dirlo era Satov nei Demoni di Dostoevskij...

Parole chiave: Il Fatto (417), Bruno Fasani (325)

“È un segno di decadenza dei popoli quando gli dei cominciano ad essere comuni”. A dirlo era Satov nei Demoni di Dostoevskij. Erano i tempi in cui il classicismo illuminista, con le sue nuove mitologie laiche ispirate alla ragione, si vedeva pian piano soppiantato dal fiorire del folclore e delle tradizioni locali, che tanto influsso ebbero nell’accentuarsi dei nazionalismi e nella coscienza che portò i Paesi europei a farsi guerra l’uno contro l’altro.
Che gli dei siano diventati comuni anche nel nostro tempo è un dato di fatto. Ma non tanto o non prima di tutto in senso politico, quanto nella cultura dell’individualità che ha trasformato ognuno di noi in un piccolo dio. Esseri comuni diventati dei. Ognuno per sé, con la propria coscienza, la propria morale, come se tutto il resto del mondo non gli appartenesse, ma ne fosse piuttosto il padrone e il consumatore.
Più che a versare lacrime sconsolate, è interessante chiedersi cosa stia alla base di tutto questo. E sarebbe davvero ingeneroso andare in cerca di colpevoli, magari solo per imputare loro peccati di omissione, scaricando un po’ la coscienza. Se siamo arrivati a questo punto, ciò è dovuto ad un insieme di cause che, negli ultimi trent’anni, hanno visto una impressionante accelerazione. Penso alla crisi antropologica (c’è chi pensa di togliere anche dalla scrittura le desinenze maschili e femminili!) e a quel dibattito che riguarda famiglia e figli, dove ormai siamo al mercato delle pulci, dove si trova di tutto e di più. Penso alla rete digitale e a tutte le modificazioni culturali e di stili di vita che sta introducendo. Penso alla nuova percezione del sacro, sempre oscillante tra rifiuto e superstizione, confinandolo di fatto nel perimetro della magia. E penso infine a tanto altro, passando dalle nuove scoperte scientifiche e da tutta la tecnologia che sta cambiando le abitudini delle popolazioni del mondo, senza dimenticare la globalizzazione che sta mettendo insieme culture diverse, come i semi di un mazzo di carte mescolati tra di loro.
Tutto questo per dire che oggi la nostra testa e da qui la nostra coscienza, sono diventate un grande teatro senza limitazioni, dove ogni compagnia teatrale può mandare in onda lo spettacolo che meglio ritiene opportuno, in attesa dell’applauso, che quasi sempre fiorisce dall’emozione più che dalla ragione.
È a partire da questi presupposti che anche la Chiesa deve porsi degli interrogativi. E non solo per domandarsi come riproporre oggi il messaggio evangelico. Perché è ora di non pensarci soltanto ad extra, ma innanzitutto di guardarci dentro. Mentre si parla di sinodalità, cioè della capacità di confrontarsi e mettere insieme le diversità per camminare con uno spirito unico, sarà importante chiederci se noi per primi, frammentati e spesso divisi tra parrocchie, diocesi e Chiese nazionali, non siamo per caso vittime di questo teatro illimitato, dove il mondo entra a fare i suoi spettacoli, catturandoci con la sua fascinazione, per renderci simili a sé.
C’è una sola sfida che ci aspetta e che potremmo vincere: ridiventare umani e capaci di incontro, perché con le catechesi e le omelie si può incuriosire il mondo. Ma è solo nel profumo della fraternità che lo si può affascinare.

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