Il Fatto di Bruno Fasani
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La follia brigatista e i suoi rigurgiti

Gli infami sono come i pidocchi. Praticamente invisibili, infestanti, tediosi e molto difficilmente eliminabili. Era il 19 marzo del 2002 quando le Nuove Brigate Rosse decisero di sopprimere Marco Biagi, docente di Diritto del lavoro all’Università di Modena. Una scarica di proiettili ne decretò la morte, a pochi passi da casa, nella sua Bologna, dove rientrava in sella ad una bicicletta...

Parole chiave: Brigatisti (1), Il Fatto (417), Bruno Fasani (325)

Gli infami sono come i pidocchi. Praticamente invisibili, infestanti, tediosi e molto difficilmente eliminabili. Era il 19 marzo del 2002 quando le Nuove Brigate Rosse decisero di sopprimere Marco Biagi, docente di Diritto del lavoro all’Università di Modena. Una scarica di proiettili ne decretò la morte, a pochi passi da casa, nella sua Bologna, dove rientrava in sella ad una bicicletta. Si sapeva che la sua vita era a rischio, ma lo Stato aveva deciso diversamente. La sua vita non era più a rischio, si disse a un certo punto. Infatti.
Sedici anni dopo, esattamente lo stesso giorno, i pidocchi sono tornati, invisibili, o come i figli della notte che amano il buio, perché non venga alla luce il male delle loro opere. E così sulle mura dell’Università di Modena, intitolata al docente assassinato, è apparsa una scritta a grandi caratteri: “Marco Biagi non pedala più”. Agghiacciante. Ma così.
A pedalare è rimasta soltanto la follia criminale nelle menti di chi è convinto che basti la parola rivoluzionario per dare dignità a chi merita invece il solo nome di assassino. Segnali inquietanti di rinascenti rigurgiti di fascismo nero e di fascismo rosso, visto che non basta la differenza cromatica per dare dignità alla violenza e alle sue logiche. Il presidente Mattarella ha detto che il terrorismo è stato sconfitto nella coscienza collettiva, ma è pur vero che è sempre dai focolai infetti che si sviluppano le patologie mortifere.
Tanto più che di questi focolai ce ne ha regalato un ceppo la brigatista rossa Barbara Balzerani. Carceriera e assassina di Aldo Moro e della sua scorta, pluriomicida «mai pentita, né dissociata» come si è orgogliosamente definita, nei giorni scorsi era al Centro popolare autogestito di Firenze, per presentare il suo ultimo libro Compagna Luna, suo nome di battaglia e titolo della sua autobiografia. Una carriera da brigatista libera portata a spasso per il Paese, dopo la libertà ottenuta nel 2007, anche grazie alla magnanimità della figlia di Aldo Moro.
Una nuova condizione di vita, la sua, resa possibile dai diritti che le riconosce la democrazia, da lei combattuta come un nemico da annientare. Diritti che le hanno consentito di esibirsi in una libertà di parola ripugnante. Prima proponendosi per incontri all’estero in occasione dei 40 anni dalla strage di Via Fani, poi con una frase che impietrisce anche al solo ripeterla: «C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere, una figura stramba che ha il monopolio della parola». A bruciare non è solo il sarcasmo di voler chiudere la bocca ai figli di coloro che lei ha ammazzato, o l’irrisione per non poter imporre loro il silenzio. Dietro vedo molto di più. Una rivisitazione del terrorismo, in presunta versione nobile, per insegnare a teste in fermento, che l’utopia brigatista ebbe un solo torto. Quello di non essere andata fino in fondo. E tutto ciò nella speranza che la manovalanza si metta a disposizione, per il bene della causa.

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