Il Fatto di Bruno Fasani
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La Chiesa ha bisogno di una nuova evangelizzazione fatta di tanti piccoli gesti fraterni

Anche quest’anno, come si usa e come fa, purtroppo, solo chi lo può fare, mi sono preso qualche giorno di vacanza...

Parole chiave: Il Fatto (417), Bruno Fasani (325)

Anche quest’anno, come si usa e come fa, purtroppo, solo chi lo può fare, mi sono preso qualche giorno di vacanza. Non chiedetemi dove perché non ve lo dirò nemmeno sotto tortura. E il perché lo capirete tra poco. Siamo comunque in Italia. Come al solito e come faccio sempre quando arrivo in un posto, la prima cosa è andare alla casa canonica, per presentarmi e mettermi a disposizione della parrocchia. Per ogni necessità, fosse anche un funerale, se del caso.
Suono il campanello e rimango in attesa. Ma invano. Mi dicono che il parroco è in casa, ma voglio credere sia una cattiveria. Povero uomo, penso tra me, chissà quali salti mortali dovrà fare per far quadrare il cerchio degli impegni. Se non bastassero i parrocchiani, adesso si aggiunge la parrocchia vagante dei turisti. Lo compiango, ma mi viene anche da mettermi nei panni della gente, della nostra gente. Sarebbe bello se qualche volontario, magari a turno, uomo o donna che sia, si mettesse a disposizione per aprire l’uscio della canonica, regalare un sorriso di accoglienza, magari solo per dire, con tono garbato: «Il parroco ora non c’è, lo trova più tardi. Io comunque lo avviso che lei è passato a cercarlo».
Sulla porta c’è anche un numero di telefono. È un supplemento di speranza. Ci provo, ma... tuuu... tuuu... tuuu... «Risponde la segreteria telefonica, dopo il segnale acustico, registri il suo messaggio». Povero uomo, sarà certamente impegnato in mille altre occupazioni. Peccato giudicare le persone dalle nostre delusioni. Poi però torno a mettermi nei panni della gente. E se per caso uno avesse qualche grave urgenza? Un familiare che è venuto a mancare? Uno che sta per morire, o altro? Si fa presto a dire pazienza. Ma in questi casi, più che la pazienza si fa strada una delusa rassegnazione.
Messi da parte comunque umori e pensieri vari, visti gli orari delle Messe, decido di farmi conoscere in sacrestia. «Buona sera reverendo, sono don Bruno di Verona». «Buona sera, sono don Remo di Vattelapesca». So bene che mi trovo a Vattelapesca, per cui non so se sia una vera presentazione, o una presa per il… bortolo. Dopo ci spiegheremo meglio e ci diremo tutto, ma intanto lui deve rispondere ai messaggi sul cellulare, accumulati durante il giorno. Chiedo di poter concelebrare. «Si vesta pure», è il generoso consenso. Sull’altare nessun cenno alla presenza di un fratello che viene da fuori. Uno più uno non fa Chiesa, ma somma algebrica, evidentemente.
Scoprirò nei giorni a seguire che si tratta di un prete buono e devoto, magari solo un po’ in difetto della grammatica relazionale. E che, detto senza volerlo criticare, offre il fianco per qualche riflessione.
Quale incisività può avere l’annuncio del Vangelo, la sua credibilità, se non parte prima di tutto dall’alfabeto della cordialità? Dove finisce il credente, quando in campo sembra prevalere il professionista del rito? E di quale cristiano parliamo, se dallo stile delle sue relazioni sparisce la gioiosa percezione di essere accolti, come ospiti biblici, facendoti intuire la bellezza della Chiesa e l’orgoglio di appartenervi?
Si fa un gran parlare, in questo tempo, di Sinodo, di piani pastorali, di strategie, per ricavarne indicazioni per il futuro dell’evangelizzazione. Ma forse non si riflette abbastanza sul fatto che la Chiesa dovrebbe ripartire dai piccoli gesti, quelli familiari della vita di Nazareth, intrecciata di semplicità, umiltà e amore fraterno. Non sarà forse da una spiccata e rinnovata umanità, fiorita ascoltando il Vangelo, che potrà avvenire una seminagione privilegiata per aprire, sul mondo, le pagine del Regno di Dio?

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