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«La vocazione? È stato come collegare i puntini...»

di LUCA PASSARINI
Don Enrico de’ Stefani, da Avesa ora a Colà e Pacengo

«La vocazione? È stato come collegare i puntini...»

di LUCA PASSARINI
Settimo anno di ministero presbiterale – senza la proverbiale crisi – per don Enrico de’ Stefani, classe 1985, originario di Avesa, anche se battezzato a San Francesco all’Arsenale: «Non c’era ancora la chiesa, ma i miei genitori e i miei zii volevano battezzare insieme i figli, anche per poter essere gli uni padrini dell’altro. E così sono stati accolti dal prete che era stato loro significativo curato». 
Enrico racconta come da ragazzo fosse sempre riconosciuto come una persona tranquilla, posata, affidabile: «Questo a volte mi ha portato a far fatica a identificarmi coi coetanei, non mi sentivo sempre a mio agio; poi, da adolescente, vedevo solo bianco o nero; ma crescendo ho perso un po’ di squadratura, ho iniziato a cogliere e accettare le sfumature, ho capito che a volte c’è da mettere da parte serietà e formalità per lasciare spazio alla spontaneità, soprattutto in quelle situazioni in cui è più facile come nei campiscuola». 
Riguardo alla vocazione ci dice: «Credo personalmente che uno diventi prete perché si rende conto che quella è la proposta di felicità che il Signore fa. La chiamo proposta, perché si è anche liberi di rifiutare questa vocazione». Non si tratta solo di parole teoriche, ma il frutto di un cammino personale e di una riflessione successiva; racconta infatti: «Io ho intuito qualcosa da ragazzo, verso gli 11 anni e questo mi ha allo stesso tempo entusiasmato, ma anche un po’ spaventato. Questa proposta, diciamo che per lungo tempo non l’ho proprio rifiutata, ma sicuramente rimandata perché volevo essere sicuro di aver capito bene. Per questo ho cercato di inseguire le scelte di vita più frequenti e provato a verificare se fossi chiamato a una vita matrimoniale». 
Ad accompagnare tutto il percorso di crescita sono stati importanti la famiglia, gli amici e soprattutto la parrocchia. «Quella è sempre stata un punto di riferimento, perché tutto ciò che veniva proposto aveva per me una sorta di certificato di garanzia sul fatto che fosse bello, che ne valesse la pena e che fosse occasione di incontro vero con i miei coetanei. Inoltre, è stata occasione per frequentare preti che mi sono stati vicini e per vivere alcune esperienze importanti». 
Tra tutte quella nel gruppo chierichetti – con un servizio iniziato in quarta elementare e del quale gli è stata poi affidata la cura – e negli scout, che lo hanno formato soprattutto nell’aspetto della semplicità e dell’essenzialità. «Finite le superiori – racconta – ho inseguito il sogno professionale che rincorreva la passione per il mondo dei trasporti, che mi era stata trasmessa fin da bambino dal nonno. Sono stati anni di belle amicizie, di coinvolgimento sempre maggiore in parrocchia (come membro del consiglio pastorale, animatore, volontario per tanti servizi semplici e manuali), di crescita nella fede. In particolare, grazie all’invito di un’amica, ho iniziato a frequentare un gruppo di giovani legato all’Opera dell’Amore Sacerdotale e ad avvicinarmi all’adorazione eucaristica e alla meditazione sulla Parola di Dio, che ho gustato come dialogo personale». 
Quando è stato tempo di discussione della tesi, si stavano spalancando belle porte, ma de’ Stefani prima di accettare delle proposte di lavoro ha voluto chiarire se davvero il Signore lo chiamasse a diventare prete. «In effetti – ci spiega – il mio parroco di quegli anni aveva già visto qualche segno di una possibile chiamata particolare, mi ha fatto alcune proposte, ma per me non era ancora il tempo. Ho avuto però la possibilità di vivere una settimana in canonica, con la scusa di preparare il suo saluto e mi sono detto che non era così male. Nel congedarsi, mi disse che mi aspettava nella nuova parrocchia per dirgli che entravo in Seminario». 
Lui non ne voleva ancora sapere, ma i pensieri nel frattempo si erano davvero avviati. «Ad un certo punto – confessa – è stato come collegare i puntini mettendo insieme alcuni fatti particolari e ogni esperienza vissuta. Ho colto soprattutto l’esempio di alcuni preti che mi hanno fatto vedere che era possibile vivere da preti ed essere felici; e riconosciuto alcuni piccoli segni che personalmente mi sono stati di conferma». 
Da lì per Enrico si è trattato di impostare alcune scelte e di mettere da parte altre cose, che pure aveva gustato essere belle e importanti: c’era però qualcosa di più grande! Sul più bello, ecco una sorta di doccia fredda: «L’ingresso in Seminario è stato inizialmente una grande delusione, perché avevo l’ideale di trovare tutta gente perfetta e con cui trovarmi in accordo pieno su tutto. E invece vi ho trovato persone molto diverse tra loro, che di fatto poi mi sono accorto essere uno spaccato di quella realtà da cui provenivo e a cui ero inviato. Mi sono quindi buttato nella vita comunitaria e davvero è stata una grande palestra di vita per il ministero». 
Anche in quegli anni da seminarista ha sentito vicine molte persone ed è stato per lui importante il nuovo parroco: «Era molto differente da me, ma ho apprezzato proprio la sapienza nell’accettarmi in questa diversità». In questi primi anni di ministero sono stati decisivi, a suo modo di vedere, l’accompagnamento con il padre spirituale – «che ho scelto non eccessivamente simile a me per mettermi sempre in discussione» –, la sana abitudine di occasioni per immergersi nella natura con qualche bella camminata, e il ritornare spesso al brano di Matteo 18 con il forte invito a non disprezzare nessuno dei piccoli: «Il vero scandalo che temo è quello dell’indifferenza verso le persone che a volte si fa freddezza nelle risposte. Il desiderio e il tentativo è invece quello di essere ponte o porta aperta, di accogliere tutti, anche chi non è abitualmente inserito nella vita della Chiesa. Tutto questo per permettere al Signore di poter accogliere, toccare, parlare». 
Per questo il suo modo è quello dell’ascolto, della semplicità, della vicinanza alla gente e dell’essere nel mondo senza essere del mondo: ovvero di essere inserito nella realtà con la capacità di offrire nuove luci. Dopo le esperienze a Porto di Legnago, Isola della Scala e Pellegrina, chiamato ora ad assumere l’incarico di parroco di Colà e Pacengo, ci dice: «Negli anni di ministero ho acquisito maggior serenità, che parte anche dal non avere aspettative o preoccupazioni rispetto alle novità, ma di accogliere quello che viene anche nei diversi passaggi, a prendere quello che offre la realtà e la situazione concreta. Non va confusa con l’apatia, ma è disponibilità ad accogliere quello che il Signore vuole donarmi di vivere».

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