Il Fatto di Bruno Fasani
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Abbiamo bisogno di salvezza ma in concreto: da che cosa?

In questi giorni risuona martellante la parola conversione. Il cristiano si domanda da che cosa questo tempo debba convertirsi per essere salvato...

Parole chiave: Il Fatto (418), Bruno Fasani (326)

In questi giorni risuona martellante la parola conversione. Il cristiano si domanda da che cosa questo tempo debba convertirsi per essere salvato. Perché la difficoltà, se non ci si vuole ridurre a proclamare luoghi comuni teologici, è quella di dare un volto storico al concetto di salvezza. Solo guardando in faccia la realtà, è possibile avere anche la percezione di quali siano le paralisi che ci bloccano e che domandano d’essere guarite. Penso che potremmo fermarci a riflettere su almeno due patologie che ci mortificano.
La prima riguarda il senso del peccato. Estromesso nel linguaggio popolare, soprattutto banalizzato come cosa da preti e quindi associato all’idea di moralismo. Diceva Oscar Wilde: «A tutto so resistere tranne che alla tentazione». A tanta filosofia esistenziale, oggi si risponde con il vissuto. Trasgressivo, libertino, individualista… e soprattutto compiaciuto. Del resto cosa mai potremmo pretendere quando basta un’isola (in senso reale) e qualche canna (e non siamo al bambù) per garantire successo, denaro e visibilità? Abbiamo buttato fuori dalla scena il peccato. Solo che ce ne siamo liberati nel pensiero e nel senso di colpa, ma non nella realtà, che persiste galoppante con tutti i suoi effetti devastanti. Il peccato, ovvero il bene e il male, continua imperterrito il suo corso, lasciando tracce indelebili. È da tempo che abbiamo abolito i confessionali, luoghi dove si dovrebbe rendere conto dei fatti propri, ad un altro (minuscolo) così come la pensano in molti. In compenso abbiamo installato i nuovi confessionali, quelli moderni. Talk show, Strisce e Iene varie, ispirati al giustizialismo in diretta, dove si va in cerca dei peccati altrui, per metterli alla gogna; ma guardandosi bene dallo stigmatizzare la cultura che li genera.
Ed è sempre dentro una certa cultura che dobbiamo andare a investigare per scoprire da cosa dobbiamo ancora essere salvati. Penso alla spavalda disinvoltura con cui abbiamo perso per strada la concezione sacra della creatura, fatta a immagine e somiglianza di Dio. Affermazione che solo apparentemente potrebbe sembrare teologica e disincarnata. Invece è proprio dentro questo principio che sta il più grande realismo possibile. Non per nulla, un tempo si diceva che se cade Dio, cade anche l’uomo. Ed è quello che sta accadendo. È un dato di fatto che una visione tecnico-scientifica della vita ha fatto scomparire l’orizzonte cristiano che stava a fondamento non solo del rispetto della persona, ma anche della sua libertà e di quei principi di democrazia che si vorrebbero rigorosamente laici, alla scuola di Voltaire, ma che di fatto attingono direttamente al pensiero giudaico-cristiano. La lettura tecnico-scientifica non riguarda soltanto la bioetica, ma prima ancora le relazioni di tutti i giorni imprigionate in quella visione utilitaristica, per cui si vale se si è piacenti, efficienti e concludenti.
La cronaca televisiva vive ormai di rendita sullo spettacolo di queste macerie, senza mai interrogarsi sul perché.

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