Ex Cathedra
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I conti con Dante: non basta una vita

Ci sono padri ingombranti, con cui, per fare i conti, non basta una vita. Ne abbiamo parlato in un “Ex cathedra” precedente, a proposito di Svevo...

Parole chiave: Ex Cathedra (34), Dante (26)

Ci sono padri ingombranti, con cui, per fare i conti, non basta una vita. Ne abbiamo parlato in un “Ex cathedra” precedente, a proposito di Svevo. Ci affacciamo ora ad un oceano che si spalanca davanti a noi, in occasione di un anniversario annunciato per il 2021, il 700° dalla morte di quel Dante o Durante Alighieri (1265-1321), fiorentino di nascita, ma non di costumi (“florentinus natione, non moribus”), come si legge nell’Epistola XIII a Cangrande della Scala, con una forte funzione avversativa della virgola. Il valore delle avversative in Dante elimina una prospettiva, la chiude definitivamente e apre ad una soluzione che è poi quella praticabile e, narrativamente, la più fruttuosa. Il primo “ma”, all’inizio dell’ottavo verso del primo canto dell’Inferno (“ma per trattar del ben ch’io vi trovai”) riapre, di fatto la partita, apparentemente persa nella selva oscura, e fa iniziare il viaggio oltremondano. Una lunga discesa “ad inferos”, alla scoperta delle pulsioni più violentemente distruttive che si agitano nell’animo umano e ne determinano il destino. La cifra della vita, persa o guadagnata per sempre in un attimo, in una decisione, in un gesto, in un pensiero che riescono ad illuminare la scena nel momento stesso in cui si chiude il sipario. Già, il padre Dante, l’ombra lunga della sua figura e della sua opera, che pure nella tradizione della poesia italiana è stata surclassata dal Petrarca delle Rime che offrono scenari più dolci, rime leggere, storie d’amore, sogni. C’è un nodo che prende alla gola: il tema del giudizio su cui si fonda completamente il percorso della Commedia. Dante non rinuncia mai a giudicare e lo fa, arrivando alla conclusione, dopo un percorso meticoloso, che predispone il lettore ad una sola possibile conclusione. “Messo t’ho innanzi, omai per te ti ciba” (Paradiso, c. III, v. 25), sembra dire ad ogni verso il poeta fiorentino, che gioca col lettore come il gatto col topo. E appunto in questo confronto continuo con le esigenze della narrazione e il rispetto di un puntuale patto narrativo, Dante concatena ogni tassello del suo immenso affresco sulla vita e sulla morte, sul giudizio, sul destino dell’uomo. Tutti temi che in una “lectura Dantis” fatta in classe possono produrre una condizione di attesa e di sorpresa per la grande possibilità di collegamento con l’esperienza formativa ed educativa che passa dai versi danteschi. Il rapporto con Virgilio, “dolcissimo padre”, il cui superamento viene sancito alla fine del viaggio, nel congedo intimamente rimpianto di un’esperienza irripetibile ed unica. Vorrei allegare qui uno dei ricordi più belli della mia vita scolastica, giunto alla fine, ormai, nell’anno sessantacinquesimo della mia vita personale e l’ultimo anche della mia professione. Il 18 novembre di quell’anno, entrando nella Terza AT turismo trovai sulla cattedra un biglietto scritto a mano con le firme dei miei allievi: “Lei per noi come Virgilio per Dante”. Lo confesso, non ci poteva essere conclusione più bella e intima di quel biglietto che conservo gelosamente tra le cose più care. Già, Dante: non basta una vita.

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