Condiscepoli di Agostino
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Superbia e umiltà sono i princìpi delle due città

Alla conclusione dell’importante libro quattordicesimo della Città di Dio, Agostino rimotiva il fatto che la disobbedienza a Dio rende l’uomo incapace di obbedire alla sua stessa volontà: “Pertanto l’uomo è stato consegnato a se stesso perché ha abbandonato Dio; piacendo a se stesso e non obbedendo a Dio, non poté obbedire nemmeno a se stesso” (De civ. Dei, XIV, 24.2).

Parole chiave: Mons. Giuseppe Zenti (310), Vescovo di Verona (245), La Città di Dio (66), Sant'Agostino (175)

Alla conclusione dell’importante libro quattordicesimo della Città di Dio, Agostino rimotiva il fatto che la disobbedienza a Dio rende l’uomo incapace di obbedire alla sua stessa volontà: “Pertanto l’uomo è stato consegnato a se stesso perché ha abbandonato Dio; piacendo a se stesso e non obbedendo a Dio, non poté obbedire nemmeno a se stesso” (De civ. Dei, XIV, 24.2).
La beatitudine del giusto si realizzerà nel regno della beatitudine, dopo la morte. Nel frattempo, non potendo fare tutto ciò che vuole, il giusto si sforza di fare ciò che può: “Se il beato non vive se non come vuole, non c’è nessun beato se non il giusto. Ma nemmeno il giusto non vivrà come vuole se non perverrà là dove il morire, l’essere ingannato, l’essere offeso non ha potere e sia a lui certo che così sarà per sempre. Questo, infatti, conviene alla natura e non sarà pienamente e perfettamente beata se non dopo aver conseguito ciò che le spetta. Ma ora chi tra gli uomini può vivere come vuole, quando lo stesso vivere non è in suo potere? Infatti, vuole vivere, mentre si pensa di morire. Come pertanto vive come vuole colui che non vive fino a quando vuole?… Come dice Terenzio: ‘poiché non si può fare ciò che vuoi, cerca di volere ciò che puoi’” (De civ. Dei, XIV, 25).
A questo punto Agostino si pone una domanda imbarazzante: “Perché dunque Dio non avrebbe creato coloro che egli seppe che sarebbero stati peccatori, quando senza dubbio poteva mostrare in loro e da loro sia che cosa per colpa loro era meritato sia che cosa per sua grazia fosse donato e che sotto quel creatore e ordinatore il perverso disordine dei peccatori non pervertiva il retto ordine delle cose?” (De civ. Dei, XIV, 26).
In definitiva, perché Dio non ha impedito all’uomo di peccare? “In nessun modo senza dubbio era incerto che satana sarebbe vinto, ma per nulla meno presciente che dal suo seme, aiutato dalla sua grazia, lo stesso identico diavolo si sarebbe dovuto vincere per la gloria dei santi. Così è accaduto che né a Dio nulla delle cose future era nascosto e nemmeno che con la sua prescienza spingeva qualcuno a peccare e che dimostrava con la successiva esperienza quale differenza c’è tra la presunzione propria di ciascuno e la sua protezione verso la creatura razionale angelica e umana” (De civ. Dei, XIV, 27).
Ormai tutto è predisposto per capire l’abisso che separa la città di Dio da quella mondana. La città terrena è blindata dalla superbia. La città di Dio è abbracciata dall’umiltà. Siamo al cuore del De civitate Dei: “Fecero dunque le due città due amori: la terrena cioè l’amore di sé fino al disprezzo di Dio; mentre la celeste l’amore di Dio fino al disprezzo di sé. (Trattandosi di uno degli aforismi più importanti di Agostino, lo riportiamo nella lingua originale: “Fecerunt itaque civitates duas amores duo: terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei; caelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui”)… In quella (la città terrena) domina la libidine del dominio nei suoi reggitori o nelle nazioni che sottomette; in questa (la città celeste) servono vicendevolmente nella carità sia i capi con le loro decisioni sia i sudditi con l’obbedienza… In questa non c’è nessuna sapienza dell’uomo se non la pietà, con la quale si venera rettamente il vero Dio, aspettando quel premio nella società dei santi non solo uomini ma anche angeli, perché Dio sia il Tutto in tutti” (De civ. Dei, XIV, 28).

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