Una giornata particolare
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Il diritto alla felicità non è un dovere ma un percorso quotidiano

La giornata internazionale della felicità si celebra in tutto il mondo il 20 marzo di ciascun anno. È stata istituita dall'assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu) il 28 giugno 2012

Il diritto alla felicità non è un dovere ma un percorso quotidiano

Fa ridere il quarto film di Aldo, Giovanni e Giacomo (uscito nel 2000 e quello di maggior successo commerciale) in cui sono alle prese con il desiderio di allestire uno spettacolo teatrale e con le difficoltà nelle loro relazioni. Fa ridere la battuta di Giacomo che ne è diventata il titolo: Chiedimi se sono felice. Fa ridere il fatto che sia una domanda retorica che presuppone una risposta affermativa, che non arriva. Fa molto meno ridere la considerazione che, in bocca all’umanità di oggi, la risposta sarebbe davvero pessima (e la situazione Covid non è la causa, ma un elemento che l’ha fatta emergere di più). Ancora più triste che la soluzione tentata sia quella di imporre dall’alto di essere felici, cosa che assomiglia a quando si implora il sorriso dal neonato in lotta con il sonno o la digestione. Tra questi audaci sforzi, quello dell’assemblea generale delle Nazioni Unite che ha messo in campo tutta la sua autorità per fare una risoluzione (A/RES/66/281 del 28 giugno 2012) in cui proporre – o dai toni usati si potrebbe dire anche comandare – la Giornata internazionale della felicità (20 marzo): si fa appello agli Stati membri e alle organizzazioni non governative, agli organismi internazionali e a quelli regionali, alla società civile e ai singoli individui perché almeno un giorno all’anno si ricordino “di come la ricerca della felicità sia uno scopo fondamentale dell’umanità” e organizzino eventi per una “crescita della consapevolezza pubblica” sull’argomento. Delusi dai risultati di questa iniziativa, alcuni Stati hanno provato a trascinare i propri cittadini fuori dalla tristezza dicendo che alla base di tutti i loro progetti c’era l’indicatore di felicità interna lorda (Fil) e non più lo sviluppo economico (misurato con il Pil): nemmeno facendo notare il grande livello di qualità dell’aria, salute, istruzione, ricchezza dei rapporti sociali la gente accetta di essere felice. Anche perché tutto questo sembra come una scena della serie televisiva Hanna: giovani ragazze che ormai si sono adeguate a rimanere isolate e senza indipendenza, a vedersi iniettato nel corpo del siero per non avere emozioni, mentre ripetono a memoria che, per la Costituzione americana, tra i diritti fondamentali di ogni uomo c’è “il perseguimento della felicità”. Il fallimento in questa ricerca dimostra che non possono garantirla né l’economia né l’ideologia. Come diceva Agostino di Ippona, “non si può trovare uno che non voglia essere felice”, ma poi è facile per chiunque farsi illudere da cose che conducono alla tristezza. Per questo, sottolineava papa Francesco nel Giubileo dei ragazzi (24 aprile 2016), se vogliamo tornare a vivere la felicità, bisogna ammettere che non si tratta di una App di cui scarico l’aggiornamento quando ne ho voglia, ma del frutto di un cammino che ci chiede discernimento spirituale (con i tre passi: riconoscere, interpretare e scegliere) e di tenere insieme libertà e amore. Ogni giorno, e non solo una volta all’anno, chiediti se sei felice.

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