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Andreoli, lo psichiatra che pensa e scrive in dialetto

Vittorino Andreoli
Omeni, done e buteleti. Frammenti di vita
Gabrielli editori, Verona
pagg. 222 - 15 euro

Parole chiave: Vittorino Andreoli (1)
Andreoli, lo psichiatra che pensa e scrive in dialetto

Nona, me còntito... Sa uto che te conta, lè sempre de quela. Viene forse un po’ da sorridere nel pensare che quel ragazzino curioso, appollaiato sulle gambe della nonna, fosse in realtà Vittorino Andreoli. Eppure, lo psichiatra di fama che non ha certo bisogno di presentazioni, oltre a “masticare” il francese, lo spagnolo e l’inglese avendo vissuto molti anni negli Stati Uniti, ha una speciale predilezione: il dialetto veronese. Lingua della quotidianità. Perché no, della follia.
Messa da parte la penna dello specialista, Andreoli ha consegnato alle stampe Omeni, done e buteleti. Frammenti di vita (Gabrielli editori): testo nelle cui 222 pagine – dedicate non per caso al Ruzante, a Goldoni e Barbarani – rende omaggio alla propria città, cultura, lingua. È un libro, esordisce con la consueta verve, «nato tanto tempo fa, la cui pubblicazione risale al 1993. Questa è una riedizione cui ho aggiunto altri ritratti di persone e ricordi». In tutto ventisei racconti, appuntati ovviamente in dialetto: «Lingua in cui iniziai a scrivere, tanti anni fa» confessa. Quando era cioè un giovane studente di Medicina, a muoversi titubante tra le corsie del manicomio di San Giacomo alla Tomba; e uno psichiatra poi, alle prese coi mati e con quel mato speciale che fu l’artista Carlo Zinelli. Lì, dice, «il dialetto era la lingua della sofferenza, dei deliri, della follia. Non si racconta il dolore in italiano! Una persona che soffre non si preoccupa di parlare in italiano». Vuoi mettere un go mal de pansa con un non mi sento tanto bene?
«Penso in veronese e traduco in italiano. Il dialetto ha una sua musicalità e mi permette di esprimermi nel migliore dei modi» spiega, aggiungendo che il volume racchiude una parte di sé: «E uno psichiatra che nasconde qualcosa di sé, non è capace di relazionarsi con gli altri». Ecco allora che la serie di racconti, che hanno come protagonisti Bepi e Maria, si legge da un differente punto di vista: sono una coppia di coniugi alla mano, genuini nella loro semplicità; amabili sposi alle prese con la vita nei campi, con i cambiamenti dettati dalla modernità e dalla crisi economica, con le abitudini quotidiane come mettere il vestito delle feste per andare alla Messa della domenica.
Veronesi tutti matti? «Non è soltanto un detto – ci tiene a precisare Andreoli – : siamo soggetti particolari, forse un po’ ossessivi. Talvolta vogliamo raccontare quel che non siamo» sintetizza, in un’analisi che pare quasi essere una diagnosi medico-paziente, pronunciata a bruciapelo. «Tutto questo – incalza – è una critica amorevole. È vero: mi è capitato di criticare i veronesi ma, facendo ciò, ho criticato pure me stesso. Ma solamente perché vorrei fossero diversi: meno egoisti e meno attenti ai schèi...».
Ed ecco che rispuntano loro, Bepi e Maria: seri quando si tratta di lavorare, ironici nell’affrontare i problemi, al passo con i ritmi della natura, attaccati alla fede. Attori di una società in via di estinzione: «Oggi la campagna è molto cambiata, nei luoghi e nei rumori che si sentono riecheggiare. I contadini si chiamano agricoltori, viaggiano su trattori giganteschi. In questo libro c’è un pezzo di archeologia, per chi desidera ricordare la sua storia, andare alle origini».
Senza nostalgia, contro la quale il rimedio prescritto dallo specialista consiste in un pizzico d’ironia. Ma con quell’immediatezza che è nel Dna dello psichiatra veronese. Anche nel riportare dialoghi e nel raccontare scene con riferimenti espliciti all’amore e alla sessualità che, non nega, sono stati in passato oggetto di critiche. Andreoli ne è consapevole.
E sorride. I veronesi, si sa, son fatti alla loro maniera...

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