Un Vescovo commosso chiede: pregate per me. La più bella lettera pastorale
Siamo alla Messa crismale del Giovedì Santo. La cattedrale, addobbata a festa, sembra la scenografia di un colossal. Centinaia e centinaia di uomini, vestiti di bianco, accendono di luce le pareti scure del tempio sulle quali, lungo i secoli, artisti in ginocchio hanno lasciato le tracce della loro fede e del loro genio...
Siamo alla Messa crismale del Giovedì Santo. La cattedrale, addobbata a festa, sembra la scenografia di un colossal. Centinaia e centinaia di uomini, vestiti di bianco, accendono di luce le pareti scure del tempio sulle quali, lungo i secoli, artisti in ginocchio hanno lasciato le tracce della loro fede e del loro genio. I protagonisti della scena sono i preti che, in questo giorno, si radunano insieme al loro pastore, per sentirsi un corpo solo e per ritrovare slancio nel ministero pastorale, segnato da tante fatiche e generosità. Un giorno che dà evidenza alle due realtà che popolano la vita di un pastore, l’amore e la solitudine, bisognose entrambe di trovare forza, per comunicare tra loro e trovare nuovo slancio da trasmettere al mondo.
La scena prende l’avvio dentro un brusio forte e sommesso ad un tempo. Sembra uno sciame d’api che si ricompone silenziosamente, come d’incanto, non appena le note dell’organo danno il via alle voci di un coro possente, formato da dieci giovani preti. Il tempo di un brivido, prima che le parole e la musica entrino nel pentagramma dell’anima, suscitando una eco corale che sa di preghiera, come tutte le emozioni vere che vengono dal cuore.
Il vescovo Domenico, nell’omelia, regala parole dense, come sempre. Piace alla gente perché è breve, dice qualcuno. In realtà, perché le sue parole sono da mangiare e la verità si mangia, se si vuole che entri in corpo e si trasformi in comportamenti. Sarà anche per questo che la razione non deve mai essere sproporzionata alla capacità di assimilarla. L’armonia non è mai amica del troppo. Inutile aspettarsi da lui elogi pubblici o impressioni che ci raccontino le sue emozioni. Questo non succede mai, o quasi.
Succede invece al momento della preghiera universale. Intorno il clima è pensosamente distratto, ritmato dall’“ascoltaci Signore” con cui si dà voce a domande spesso preconfezionate e prevedibili. Ma ora è il momento in cui il Vescovo chiede aiuto per il proprio ministero.
«E pregate anche per me...». La voce si incrina. Il tempo di un battito di respiro perché l’assemblea ammutolisca. Poi rischiara la voce, ma solo per lasciare passare all’esterno ciò che l’animo singhiozzante sta dicendo senza parole: «... perché sia fedele al servizio apostolico affidato alla mia umile persona...». Poi un’ultima increspatura della voce, prima di concludere: «Perché io diventi ogni giorno di più immagine viva di Cristo tra di voi».
L’assemblea è avvolta da un silenzio rarefatto. Commossa, ammirata... Verrebbe voglia di applaudire. Ma gli applausi si fanno di incoraggiamento. E qui non c’è nulla da incoraggiare. C’è solo da leggere la profondità della più bella lettera pastorale che un Vescovo possa trasmettere alla sua diocesi. Il mondo sembra privilegiare il rumore e la voce dei potenti, restando indifferente a chi sussurra sentimenti di responsabilità. Ci si può commuovere per tante ragioni. Per un distacco, per un lutto, per un dolore qualsiasi... Ma non siamo più abituati alle lacrime degli umili, quelle di chi sente d’essere sempre impari rispetto alla grandezza di una vocazione.
Anche l’umiltà di un Vescovo, pensato nell’immaginario collettivo come l’uomo del potere, esce allo scoperto attraverso piccoli dettagli, che ce lo consegnano curvo sotto il peso del proprio percepirsi inadeguato e sotto quello delle responsabilità che lo aspettano. Perché la verità dell’essere cristiani non la si dice. La si vive, senza possibilità di barare o di incartarla nelle chiacchiere. Ed è la sola capace di cambiare il mondo, anche se tante volte ha il prezzo salato del sentirsi fragili.
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