Il Fatto di Bruno Fasani
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Quando il presidente Napolitano visitò la Biblioteca Capitolare

La telefonata era arrivata qualche tempo prima. Il 17 giugno 2011, un venerdì, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sarebbe venuto a visitare la Biblioteca Capitolare di Verona. Ricordo l’euforia che ci prese...

Parole chiave: Giorgio Napolitano (1), Il Fatto (417), Biblioteca Capitolare (16)

La telefonata era arrivata qualche tempo prima. Il 17 giugno 2011, un venerdì, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sarebbe venuto a visitare la Biblioteca Capitolare di Verona. Ricordo l’euforia che ci prese. Chiamammo l’imbianchino, ci facemmo prestare qualche tappeto per la circostanza e poi via a mettere in ordine ogni angolo, perché l’accoglienza fosse all’altezza del personaggio. Di lì a qualche giorno, venne a fare un sopralluogo una giovanissima tenente del Gabinetto del Presidente. Mi sono sempre chiesto perché lo chiamino in questo modo. Le enciclopedie fanno derivare il nome dal francese cabinet, ossia una piccola stanza dove si incontrano i consiglieri più fidati, ma altri vorrebbero farlo discendere dagli antichi gabinetti dei romani. Quelli per i potenti ovviamente, quando dotavano una lunga lastra di marmo di tanti fori su cui sedersi, in una prossimità per noi assolutamente inconcepibile e imbarazzante. E lì, tra borborigmi intestinali e flatulenze incontrollate, i vari notabili di governo decidevano i destini del popolo loro affidato.
Dicevo che venne una tenente del Gabinetto del Presidente. Era alta come un termosifone, ma era impastata di pepe. Mi ricordava un giovane ufficiale della scuola militare alpina, dove avevo fatto la naja qualche anno prima. Ubbidire e tacere. Ricordo quando tentavo di obiettare o suggerire soluzioni alternative. Ogni volta era un no. Sissignora, va bene così, come dice lei, signor tenente.
Poi finalmente venne il giorno del tanto atteso appuntamento. L’incontro doveva avvenire alle 18. Il salone principale sembrava una bomboniera. Già un centinaio di invitati si erano disposti per l’accoglienza. Ma poi cominciarono a passare i minuti, poi i quarti d’ora, poi un’ora, senza che nulla accadesse, mentre a me cominciava a saltare la mosca al naso. Più o meno dopo le 19, venne la peperina con il questore e il prefetto. «Il presidente non viene. È stanco», mi dissero lapidari. Feci qualche rimostranza garbata. Ma come? Poi, però, senza tante inibizioni detti la stura a quanto mi passava dentro. Sapevo che la verità vera di quella stanchezza era dovuta a qualche politico cui non voleva stringere la mano. E fu allora che dissi senza pudore quanto pensavo. «Voglio sperare di non dover pagare il prezzo di beghe politiche di cui la cultura è estranea e, Dio non voglia, che al presidente non dia fastidio anche l’odore di incenso, essendo questo un ambiente di preti». «Ma come si permette?» fu il richiamo risentito del questore. Altrettanto scocciato il volto della tenente. «E ditelo al presidente», fu la mia risposta perentoria.
La mattina dopo, alle sette circa, mi arrivò una telefonata. Il presidente sarebbe venuto alle nove. Una mezz’oretta di tempo e poi partenza per Roma. Almeno quelle furono le indicazioni. Alle nove in punto, scusandosi per la sera precedente, il presidente si presentò con la moglie dentro le stanze della Biblioteca. Vi rimase quasi tre ore. Gli illustrai i codici antichi, mentre cresceva un grande clima di cordialità. Mi feci l’idea che Napolitano fosse un politico scafato, capace di gestire, non senza cinismo, le tante contraddizioni del partito in cui militava. Ma ebbi anche l’impressione che, da un punto di vista umano, portasse dentro una grande eleganza e una singolare capacità di empatia con coloro di cui poteva fidarsi. Osservò i vari codici con la curiosità di un bambino e più volte mi chiese come avevamo fatto a traghettare mille e seicento anni di storia, in mezzo a guerre, invasioni, calamità naturali. «Solo la Chiesa sa fare di questi miracoli», mi disse. Detto da lui.

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