Il Fatto di Bruno Fasani
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Quando fare soldi vale più della vita e di tanti valori

Che non sia stato uno stinco di santo è risaputo. Sappiamo però che sul letto di morte volle ricevere i sacramenti, per morire da cattolico come aveva tanto desiderato in vita, trovando peraltro sempre l’opposizione del fratello che minacciava di togliergli la casa e buttarlo sul lastrico, se solo avesse pensato di abbandonare la religione anglicana. Oscar Wilde morì solo e povero a Parigi, il 30 novembre del 1900 a soli 46 anni, dopo una vita tormentata, intrecciata di genio e dissoluzione...

Parole chiave: Il Fatto (417), Bruno Fasani (325)

Che non sia stato uno stinco di santo è risaputo. Sappiamo però che sul letto di morte volle ricevere i sacramenti, per morire da cattolico come aveva tanto desiderato in vita, trovando peraltro sempre l’opposizione del fratello che minacciava di togliergli la casa e buttarlo sul lastrico, se solo avesse pensato di abbandonare la religione anglicana. Oscar Wilde morì solo e povero a Parigi, il 30 novembre del 1900 a soli 46 anni, dopo una vita tormentata, intrecciata di genio e dissoluzione.
Eppure, solo a leggerlo con il distacco che ci è dato dal tempo e da una mutata idea di misericordia, è possibile cogliere schegge profetiche che solo i grandi sanno regalare alla riflessione del mondo. Scriveva Wilde alla fine della sua vita: “Il capitalismo conosce il prezzo di tutto, ma il valore di niente”.
Aveva la vista lunga l’inquieto e acuto pensatore. Dalla sua c’era che aveva già potuto rendersi conto degli effetti di una industrializzazione avanzante che faceva delle persone carne da macello, senza riconoscimento di diritti e tutele. Cosa che aveva notato qualche anno prima anche un santo di casa nostra, Giovanni Bosco, che si premurò di togliere dalla strada un’infanzia abusata e profanata. Ma oltre le vicende umane, era una nuova diffusa filosofia che si stava imponendo a far paura, quella che dava corpo al detto degli antichi, secondo il quale pecunia non olet, il denaro non manda odore. Sotto il suo peso non solo si nascondono gli afrori delle ferite causate alle creature, ma si coprono anche le grida dei più deboli, quando la loro voce si sfinisce sotto il peso dell’arroganza e dell’ingiustizia.
Pensavo a tutto questo mentre la cronaca mi porta negli scenari del mondo in cui si consuma il dramma del Covid-19. Ne sceglierò due. Uno all’estero e uno a casa nostra. Negli Stati Uniti, il Figuro arancione ha chiesto agli Stati confederati di pronunciarsi sulle priorità che avrebbero dato nella cura dei colpiti dal virus. Si sa che la terapia intensiva hai i suoi costi. Attrezzature, macchine respiratorie, personale specializzato, accorgimenti protettivi… E dunque: è giusto darlo a tutti, sapendo quanto costa? Tra i molti che si sono pronunciati, a far la differenza è soltanto il modo di incartare le risposte. Si va dalla più blanda dello Stato di New York, che chiede di valutare “il livello di abilità fisica e intellettuale, prima di intervenire”, a quella più brutale dell’Alabama in cui si dice che “i disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto della respirazione assistita”.
Era solo il 1920, giusto cento anni fa, l’altro ieri, quando in Germania due psichiatri scrissero il famoso libro Le vite senza valore. Si sosteneva che per il bene della società, alcune categorie di persone non meritavano d’essere curate e portate avanti. Si cominciò dagli handicappati gravi, ma poi la cerchia si allargò agli zingari, agli omosessuali, per finire agli ebrei, inquinatori del sangue puro della razza ariana. Oggi, con la retorica del dopo, facciamo gli indignati per tutto questo e per le leggi razziali nostrane che se ne fecero interpreti, salvo diventare muti quando la stessa logica va in scena in versione Coronavirus.
Ma giusto per restare a casa nostra, è di domenica scorsa un comunicato sindacale della redazione del Sole 24Ore, il giornale di Confindustria, in cui si prendono le distanze da una scelta dell’editore per aver pubblicato un articolo, apparso il 17 aprile scorso, in cui si diceva testualmente: “Non è la mortalità eccessiva a livello nazionale che giustifica il blocco prolungato dei diritti e della vita degli italiani”. Come sempre: pecunia non olet.

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