Il Fatto di Bruno Fasani
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Fare memoria è scoprire da dove vengono i fatti

Ormai da qualche anno, la celebrazione del 27 gennaio, giorno dell’ingresso dell’Armata Rossa nei tristemente noti campi di Auschwitz, riporta in primo piano il tema della memoria. Tra non molto, inizieremo qui in Italia le celebrazioni rievocative di un’altra memoria, quella dell’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto del 1915-1918. Una guerra che per la prima volta nella storia assunse dimensioni mondiali...

Ormai da qualche anno, la celebrazione del 27 gennaio, giorno dell’ingresso dell’Armata Rossa nei tristemente noti campi di Auschwitz, riporta in primo piano il tema della memoria. Tra non molto, inizieremo qui in Italia le celebrazioni rievocative di un’altra memoria, quella dell’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto del 1915-1918. Una guerra che per la prima volta nella storia assunse dimensioni mondiali. Qualcosa di mai visto prima, a cominciare dalla ferocia con cui fu combattuta. Scriveva Sigmund Freud, il padre della psicanalisi: “È una guerra che infrange tutte le barriere e le garanzie poste a tutela della persona. Non opera alcuna distinzione tra popolazione combattente e civile. Abbatte quanto trova sulla sua strada, con rabbia cieca, come se dopo non dovesse più esserci avvenire di pace tra gli uomini”. Parole drammatiche, cui fece eco la definizione lapidaria di Benedetto XV, che definì la tragedia “una inutile strage”. Una strage che costò dieci milioni di morti e venti milioni di feriti e mutilati. Senza contare i venti milioni di morti, causati nel ’19 da un virus devastante, passato alla storia come “spagnola”, che ebbe buon gioco a espandersi su una popolazione indebolita e alle prese con la mobilitazione tipica dei tempi di calamità.
Sarà importante fare memoria di questi fatti, soprattutto con le nuove generazioni. Ma fare memoria non vuol dire limitarsi a qualche pur apprezzabile manifestazione, che ha il sapore di una tradizione più che di una vera rivisitazione del passato. La memoria, perché sia tale, ha bisogno di andare al passato per interrogarlo e portare le sue risposte nel presente. Bisogna chiedersi: da quale albero è venuto fuori il frutto velenoso della guerra? Come è stato coltivato questo albero, quali concimi lo hanno fatto germogliare e crescere? La memoria ci aiuta sempre a leggere la storia in un rapporto di causa-effetto. Che tradotto con parole più semplici vuol dire che nella vita si raccoglie sempre quello che si semina. Questo è un principio che non va mai dimenticato, soprattutto nel contesto attuale in cui viviamo, segnato dalla cultura digitale fortemente appiattita sul presente. Viviamo come se i fatti fossero slegati dal passato, ma anche dal futuro. E invece, fare memoria vuol dire rendersi conto che ciò che è accaduto era figlio di un certo modo di operare e quello che accadrà domani sarà la conseguenza di ciò che mettiamo in essere nel presente. Quali conseguenze potrà avere negli anni a venire una cultura che banalizza la vita, che tutela i diritti dei sani e dei più forti, che manda al macero la famiglia, che confonde e distrugge la natura in nome della cultura, che ispira la politica a vantaggio di pochi, dimenticando il servizio di molti? Torneremo ancora a parlare della Grande Guerra, ma non per farne una rievocazione emotiva. Ricordarla vuol dire andare a studiare il contesto che l’ha fatta insorgere. Ma vuol dire anche ricordarsi di coloro che sono morti nelle trincee, portando a compimento l’unità d’Italia, creando le premesse per l’avvento del suffragio universale maschile, ridando fiato e voce a Paesi europei fino ad allora soggiogati dalle potenze dominanti, da parte di una cultura aristocratica ed elitaria. Ricordarsi di coloro che con la loro dedizione scrissero con la vita il senso del valore di una nazione, del bene comune, il destino collettivo di un popolo. E tra questi vanno ricordati anche gli esempi luminosi di figure come Primo Mazzolari, Giulio Bevilacqua e Angelo Giuseppe Roncalli, che non sono certamente i “peggiori preti italiani del Novecento”, come sostiene un mio amico professore di storia.

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