Ex Cathedra
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Il contributo di De Amicis e Collodi nell’istruzione delle classi popolari

Nel bel mezzo del secondo Ottocento, a Italia riunificata, bisognava affrontare il problema di “fare gli italiani”, come disse Massimo D’Azeglio. Una situazione da far rabbrividire perché gli italiani non esistevano: c’erano regioni con lingue, monete, governi, economie, situazioni diversissime tra loro...

Parole chiave: De Amicis (2), Collodi (1), Ex Cathedra (34)

Nel bel mezzo del secondo Ottocento, a Italia riunificata, bisognava affrontare il problema di “fare gli italiani”, come disse Massimo D’Azeglio. Una situazione da far rabbrividire perché gli italiani non esistevano: c’erano regioni con lingue, monete, governi, economie, situazioni diversissime tra loro. La strada intrapresa fu quella di agire su alcuni contenitori di massa, in grado di fornire comportamenti e linguaggi unificanti: il servizio militare obbligatorio, la scuola, il culto o meglio ancora la “religione della Patria”, verso cui le due realtà precedenti convergevano, oggi si direbbe, sinergicamente. Intuizione difficile da attuare perché nel Sud molti giovani furono renitenti alla leva obbligatoria, sentita come un intollerabile peso individuale e familiare. E per quanto riguarda la scuole, fatte salve le città, le sedi periferiche non erano ancora all’altezza di questo nome e si dovette aspettare Giolitti, negli anni del suo ultimo ritorno prima della guerra, fra il 1911 e il 1913, per avere un vero e proprio piano nazionale di edificazione degli istituti scolastici. Quegli edifici che ancora oggi si vedono maestosi e intatti in qualche paese della provincia (Pescantina e Bardolino, ad esempio). Vennero allertati, per concorrere allo scopo, anche gli autori di storie che dovevano far diventare racconto un obiettivo generale come quello dell’istruzione delle classi popolari. Edmondo De Amicis (1846-1908) si inserisce a buon diritto in questa scia e, dopo una vita da inviato speciale, immagina di diventare inviato nella classe di una scuola elementare di Torino e di raccontare, in forma di diario redatto da un alunno, l’intero anno di scuola 1881-82. Il lancio di Cuore fu programmato nei dettagli per il 18 ottobre del 1886, primo giorno di scuola di quell’anno, e divenne un successo travolgente che riempì i lettori di lacrime e il suo autore di palanche, da buon genovese abituato a trattare a muso duro con gli editori Treves di Milano, nientemeno. Buoni sentimenti, forti contrasti sociali, scene madri nei racconti mensili, personaggi che si sono stampati nella memoria collettiva anche grazie alla sempiterna vulgata scolastica, malgrado la critica corrosiva cui il libro fu sottoposto negli anni ’60. Su tutti “L’elogio di Franti” (Diario minimo, 1963, I edizione Oscar Mondadori, 1975), scritto dal giovane Umberto Eco. E a fare da pendant ai sentimenti del libro Cuore, lo sberleffo del toscanaccio Pinocchio, uscito a puntate dalla penna di Carlo Collodi (1826-1890) come Le avventure di un burattino nel 1881. Una favola che è insieme una metafora straordinaria del processo di crescita e maturazione. Il bambino Pinocchio vede, alla fine delle sue avventure, il burattino su una sedia e la storia deve finire per forza: non c’è più la fantasia del possibile. Due testi da riprendere, magari sulla scorta di due letture “filologiche” televisive che il regista Luigi Comencini ha fatto dell’uno e dell’altro per mamma Rai: nel 1972 Pinocchio, con uno straordinario Geppetto-Nino Manfredi e la indimenticabile fatina Gina Lollobrigida, e Cuore nel 1984 con il piccolo Carlo Calenda nei panni di Enrico Bottini, il personaggio guida del libro.

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