Ex Cathedra
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Giuseppe Ungaretti: un sentiero tra i poeti

Siamo nel 1916, secondo anno di guerra per l’Italia. Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970), partito volontario, viene impiegato come fante sul Carso

Parole chiave: Giuseppe Ungaretti (1), Ex Cathedra (34)

Siamo nel 1916, secondo anno di guerra per l’Italia. Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970), partito volontario, viene impiegato come fante sul Carso, conosce da vicino la terribile realtà del conflitto vissuto nelle trincee, gomito a gomito con la morte, coi compagni coi quali divide la pena di vivere. Ungaretti “uomo di pena”.

Il Natale del 1916 ottiene una licenza e la trascorre a Napoli. C’è un senso di spossatezza in questi versi, la volontà di lasciare fuori il mondo. Vi percepisco un senso di fraterna vicinanza con l’oggi della pandemia che ci coinvolge ancora, un abbraccio a tutte le cose che ci circondano e danno vita allo spettacolo del mondo. Un fiato unico, passato nel testo senza il puntello dei segni ortografici, versi brevi, scavati nella roccia carsica del dolore. Vi affiora anche la figura di Leopardi. “Ahi dal dolor comincia e nasce l’italo canto”, chiosava il poeta de L’Infinito nella Canzone ad Angelo Mai del 1820, duecento anni fa.

Ungaretti ne riprende la lezione e la coniuga con la sua realtà di soldato, sempre in dolorosa veglia, quasi un secolo dopo, in una situazione drammatica che cambierà lingua e modi della poesia passando dal crogiolo della guerra, alla ricerca di una umanità nuova dopo il naufragio, “il caldo buono e le quattro capriole di fumo del focolare”.

A questa conclusione, pur nel mezzo di un conflitto che lasciò sul terreno 11 milioni di morti e che doveva durare ancora due sanguinosissimi anni, Ungaretti arrivò dopo essere partito volontario. Anche lui, come tanti giovani intellettuali dell’epoca fu attratto dall’idea che l’immane conflitto, glorificato da Filippo Tommaso Marinetti e dai Futuristi come la “sola igiene del mondo”, (“9. Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”, Manifesto del Futurismo, Le Figaro, Parigi, 20 febbraio 1909), avrebbe spazzato via le vecchie strutture della società borghese e generato la tanto auspicata palingenesi, il rinnovamento, la rinascita di una civiltà nuova.

Quel giovane, figlio di emigrati lucchesi in Egitto, di lingua e cultura francese, che aveva studiato a Parigi, alla Sorbona, e per riuscire finalmente a riconoscersi aveva mescolato l’acqua nativa del fiume Serchio in quella torbida della Senna, come racconta nella poesia I Fiumi, aveva sbagliato i conti. La guerra gli restituisce il senso della fragile precarietà della vita, di un contesto di morte dove anche il paesaggio (San Martino del Carso) si fa dolore e memoria. Un cammino umano che si allontana progressivamente dalle sirene futuriste per approdare ad una sicura e consapevole condivisione della pena di vivere (Fratelli) nella atroce verità di morte, svelata da un conflitto che fu la celebrazione della tecnica e dove crollò ogni limite alla volontà di distruzione dell’umano.

I poeti camminano spesso su sentieri appartati, in cerca delle tracce della propria umanità. Ungaretti sceglie il percorso opposto: una totale immersione, che sarà poi anche di Saba, nella “calda vita di tutti” per esprimerne il valore. Una decisa marcia di avvicinamento della poesia e del suo linguaggio, questo sì senza retorica, alla ricerca di ciò che vi è di intimamente umano in ognuno di noi.

Già: i poeti, che brutte creature. 

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