Condiscepoli di Agostino
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L’uomo abbandonato all’ira delle libidini

Abbandonato a se stesso, l’uomo si lascia dominare da una infinita serie di libidini, cioè di brame smoderate e insaziabili

Parole chiave: La città di Dio (66), Sant'Agostino (185), Mons. Giuseppe Zenti (325), Vescovo di Verona (247)

Abbandonato a se stesso, l’uomo si lascia dominare da una infinita serie di libidini, cioè di brame smoderate e insaziabili: “Infatti, quale altra miseria dell’uomo vi è se non la disobbedienza nei confronti di Dio contro se stesso, in modo che poiché non ha voluto ciò che ha potuto, vuole ciò che non può?… La carne ha sempre qualche sofferenza che non le permette di essere sottomessa... Lo è per la giustizia di Dio che su tutto domina, al quale non abbiamo voluto essere sottomessi nell’obbedienza. Di conseguenza, la nostra carne che era sottomessa, ribellandosi ci procura sofferenza, benché noi, ribellandoci a Dio, non abbiamo potuto essere molesti a Dio ma a noi… Vi sono molte e varie forme di libidine (ad esempio vendicarsi che è l’ira, possedere che è l’avarizia, volerla sempre spuntare che è la caparbietà, gloriarsi che si definisce ostentazione)… Chi infatti sarebbe in grado di dire con facilità che cosa evochi la libidine del dominare?” (De civ. Dei, XIV, 15.2).
Agostino precisa che solitamente il termine libidine si riferisce all’uso smodato della sessualità, mostrando sulla scena le parti invereconde del corpo, da cui il termine “osceno”, che significa “in scena”: “Essendo dunque la libidine propria di molte cose, tuttavia, quando si dice libidine senza aggiungere di quale cosa sia libidine, di solito non è solita presentarsi all’animo se non quella con la quale vengono eccitate le parti invereconde del corpo” (De civ. Dei, XIV, 16). Prosegue con una serie di osservazioni pertinenti, frutto anche della sua stessa esperienza: “Essa (la libidine) vendica a sé non solo tutto il corpo e non solo ciò che è parte esterna, ma anche il suo intimo e sconvolge la totalità dell’uomo simultaneamente con le emozioni dell’animo, con l’appetito della carne congiunto e ben mescolato, sicché ne consegue quella voluttà che nessun’altra voluttà del corpo è maggiore. Al punto che nello stesso attimo di tempo, in cui si perviene al culmine, ogni difesa e per così dire ogni stato di vigilanza della mente vengono sommersi” (Ivi).
Altre osservazioni di carattere psicologico completano il quadro. Certo, osserva Agostino, prima del peccato originale gli esseri umani non erano travolti dalla libidine e non percepivano oggetto di pudore gli organi eccitati dalla libidine o inibiti da qualche disfunzione, non del tutto soggetti esclusivamente alla autodeterminazione dell’uomo. Dopo il peccato originale le cose stanno diversamente (Cfr. De civ. Dei, XIV, 17).
Come protezione e salvaguardia nei confronti della libidine sessuale Dio ha posto il pudore, il senso della verecondia, cioè del rossore. Osserva acutamente Agostino: grazie al senso del pudore si può gustare la gioia della salute dalla libidine: “Giustamente si prova pudore soprattutto di questa libidine; giustamente si dice che devono essere oggetto di pudore anche le stesse membra che di diritto proprio, per così dire, la libidine muove o non muove in ogni modo, non a nostro arbitrio…  Dopo che è stata sperimentata la molestia della malattia diventa più gioiosa anche la salute… Pertanto ciò che per la colpa della disobbedienza la libidine stimolava la volontà contro il dannato con modalità di disobbedienza, la verecondia copriva con discrezione” (Ivi). E ciò ad estensione mondiale: “La verecondia copriva con pudore ciò che la libidine per disobbedienza eccitava nei confronti dei dannati per colpa. Da ciò, tutte le popolazioni, poiché sono state procreate da quella stirpe, fino ad oggi tengono come un istinto di velare ciò cui si deve pudore” (Ivi).

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