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La strana famiglia dell’ambulante Pierrot

Pierre Chazal
Sei grande, Marcus
Einaudi, 2014
pagg. 232 - 18,50 euro

La strana famiglia dell’ambulante Pierrot

Chazal è uno scrittore esordiente il cui talento merita di incontrare il favore di critica e lettori. Probabilmente l’ottima intenzione di inclinare a suo favore la strada del successo ha indotto qualche recensore a trovare somiglianze con autori da tempo affermati, come, ad esempio, Daniel Pennac. L’analogia colta fra la cerchia di amici e parenti del Signor Malaussène, capro espiatorio per vocazione nato dalla fantasia di Pennac, e la famiglia ampia ed elettiva di Pierrot, protagonista di Sei grande, Marcus, appare in verità un po’ forzata. In entrambi i casi – è vero – personaggi tutt’altro che esemplari rivelano cuori d’oro e impensabili riserve di onorabilità.
Il filo del racconto è quasi per intero in mano al giovane ambulante Pierrot (anche voce narrante). Egli si trova nella necessità di accogliere in casa propria Marcus, il bambino di una ragazza (Hélène) che, non ricambiato, ha amato intensamente e che ora si è tragicamente congedata dalla vita, dopo averne sprecato tratti significativi nella tossicodipendenza.
Pierrot non secerne il senso di paternità come avesse una ghiandola dedicata, ma sa far germogliare subito fra sé e Marcus una complicità che appiana tutto. Anche il carattere sveglio del bambino contribuisce a fluidificare un rapporto, cui Marcus attribuisce senza tentennamenti un chiaro status chiamando l’adulto “padrino”. Nei giorni liberi dalla scuola, il ragazzino segue volentieri l’ambulante, improvvisatosi padre, nei mercati dove astuzia e buone maniere fanno vendere al primo gli ortaggi e dove il secondo pesca a strascico le attenzioni premurose e divertite delle donne.
La strana famiglia partita in retromarcia raggiunge una sua forma di compiutezza, quando ricompare in scena Fabienne, la giovane donna che ha affidato Marcus alle cure di Pierrot, prima di entrare in clinica per disintossicarsi. Quale valore aggiunto porti o – meglio – sia Fabienne sotto il tetto di Pierrot lo dicono, con una felicissima immagine, le parole di Chazal stesso: “Una donna che dopo aver visto tante di quelle vite a pezzi aveva deciso di darsi al cucito ed era pronta a rammendare tutto quello che le capitava in grembo”.
Il rammendo di Fabienne è affettuoso, delicato, dolcemente inesorabile come solo può essere realizzato da una donna che risponde alle caratteristiche vividamente evocate dalle righe di poco sopra. Solo una toppa resiste all’opera di Fabienne: il rapporto difficile, tormentato di Pierrot con il padre. Una visita a questi da parte del figlio dà vita ai soliti attriti, ma stavolta dietro la piega di una vita finalmente rammendata, accovacciato e pronto all’agguato, se ne sta l’imponderabile, e la vita di Pierrot deve ripartire da capo.
L’analogia colta fra la cerchia degli affetti di Pierrot e quella che circonda il Signor Malaussène ci è sembrata debolmente motivata. La vita dei due gruppi, ora artigliata dal disagio sociale, ora ammiccante allo stesso, pare costituire una base fragile per un confronto letterario degno del nome. Ma se l’analogia in parola può valere come un invito ad osare, si può dire che la curva esistenziale di Pierrot presenta qualche somiglianza con la vicenda di Jean Valjean ne I miserabili. Almeno una differenza essenziale sembra, però, tener lontani i due personaggi. Se Valjean, dopo l’atto caritatevole di Mons. Myriel che accende la sua voglia inesauribile di riscatto, è continuamente braccato dal poliziotto Javert, Pierrot, al contrario, è inseguito dal destino cinico e baro, come si suol dire. La vicenda di Valjean è inclusa fra un atto di misericordia ed uno di riconoscenza, perché Javert alla fine lascia fuggire la sua preda, nei cui confronti era diventato debitore della vita. Il percorso di Pierrot non gode di questi due momenti estremi. Quella che religiosamente si chiama “grazia” brilla fugace per lui in Marcus e in Fabienne, prima di essere risucchiato ingiustamente nella vita da cui si era redento.

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