Il Fatto di Bruno Fasani
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Un vescovo che gioca a calcio coi ragazzi. Quale messaggio per la Chiesa?

Immaginate un vescovo che, indossate scarpette e pantaloncini, scendesse in campo per una partita di calcio con un gruppo di ragazzi dell’oratorio...

Parole chiave: Partita (2), Il Fatto (415), Vescovo (371), Mons. Domenico Pompili (13), Calcio (135)

Immaginate un vescovo che, indossate scarpette e pantaloncini, scendesse in campo per una partita di calcio con un gruppo di ragazzi dell’oratorio. E che, facendo onore al numero dieci che si trova sulla maglia di attaccante, andasse in rete due volte. Immaginiamo che sia. A quel punto si tratterebbe di rubricare il gesto sotto qualche voce. Passione di un indomito sportivo? Per saperlo bisognerebbe indagare, per scoprire quante sneakers nella scarpiera aspettano il turno di servizio o se qualche tapis roulant stazioni dietro la porta per garantire la forma a tutti i costi. E se fosse una forma di giovanilismo? Anche no, perché si tratterebbe di un virus della psiche, quello per cui bisogna sembrare giovani a tutti i costi, come se l’essere giovani fosse l’unica cosa meritevole della vita. La giovinezza è un rimpianto per chi non l’ha più, una speranza per chi confida nel futuro delle nuove generazioni, ma anche una malattia da cui si guarisce velocemente. Per il resto scimmiottare d’essere perennemente giovani, non solo è un autoinganno, ma è soprattutto un furto di domani per chi sta crescendo, come se tutto dipendesse dagli adulti e dai vecchi, senza bisogno dei giovani. C’è una terza ipotesi che entra in scena e rimanda ad un nuovo stile di essere pastori, fondato sull’incontro. Papa Francesco l’ha scolpito con una di quelle sue espressioni che passeranno alla storia. Parlando di loro, ha detto che devono avere “l’odore delle pecore”. Non ha parlato propriamente di profumo, dove la gradevolezza si impone da sé. Odore è odore. E basta.
Leggevo poco tempo fa un racconto bellissimo di Christian Bobin, poeta francese di straordinaria profondità. Parlando di Gesù, lo ha chiamato “l’uomo che cammina”. Vi riporto qualche riga. “L’uomo che cammina se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria, tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Va così, nella ricerca mai interrotta di chi è più grande. E il primo che si incontra è il più grande. Bisogna scandire ogni parola di questa frase e masticarla, rimasticarla. La verità la si mangia. Vedere l’altro nella sua nobiltà di solitudine, nella bellezza perduta dei suoi giorni. È quanto si sfianca a dirci, l’uomo che cammina. Non guardate me, guardate il primo venuto e basterà”. Leggo queste righe e penso alla stanchezza di tanto impegno pastorale. Aspettative, delusioni, senso di impotenza, come se raccontare Gesù Cristo fosse diventato inutile, se non anche tedioso. E allora la tentazione a riparare nel nido di canoniche senza entusiasmo, a covare il nido della scontentezza, o rifugiarsi nel guscio dei lamenti, spartito con altri confratelli, nella magra consolazione del mal comune.
Mi viene spesso da pensare che c’è un solo modo per ridare vigore alle stanchezze della Chiesa, ed è quello di togliere il Vangelo dal granaio della mente, per restituirlo alla bellezza dell’incontro, alle emozioni della fraternità, quella che ci porta ad essere pellegrini, che guardano negli occhi le persone che si incontrano per strada. E allora non importa se si macinano 75mila chilometri l’anno in auto per andare dove bisogna andare, se si spartisce la mensa col prete malato, se si visita una comunità convinta di non valere niente. Le parole non servono e neppure le lunghe omelie. Per quelle cinque minuti bastano e avanzano, mentre due gol possono essere determinanti per vincere la partita.

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