Il Fatto di Bruno Fasani
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Quegli eventi che ci aiutano a essere più umani

Potrebbe sembrare più che irriverente accostare eventi così lontani tra di loro, seppure accomunati da non poche analogie. Sto parlando di quanto accaduto a Roma, in Vaticano, nell’ultimo mese e dell’adunata nazionale degli alpini, appena conclusa nella città di Biella...

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Quegli eventi che ci aiutano a essere più umani

Potrebbe sembrare più che irriverente accostare eventi così lontani tra di loro, seppure accomunati da non poche analogie. Sto parlando di quanto accaduto a Roma, in Vaticano, nell’ultimo mese e dell’adunata nazionale degli alpini, appena conclusa nella città di Biella. Il sacro e il profano penserà qualcuno, convinto che i due ambiti siano di fatto inconciliabili. Cosa c’entra la morte e l’elezione di un nuovo Papa con un evento pubblico e festaiolo degli alpini in congedo?
Si sa che la cultura che respiriamo è segnata da un forte tasso di tecnologia, di cui l’intelligenza artificiale è l’ultima frontiera, guardata con grande attenzione e anche con un certo allarmismo. Papa Leone XIV ne ha fatto cenno fin dall’inizio del pontificato e non è lontano dalla realtà ipotizzare che non stia pensando di pubblicare una enciclica per illuminarci sui rischi della tecnocrazia, tanto utile al progresso quanto rischiosa per il vissuto umano dell’esistenza. Sappiamo che la tecnica così come è concepita oggi ci aiuta a comunicare ma non necessariamente a relazionarci. È un dato di fatto che notiamo nelle nuove generazioni, nevroticamente intente a compulsare i tasti di un cellulare o di una tastiera di computer quando, indossati i panni del moralista, dimentichiamo che i primi a dare il cattivo esempio siamo di fatto noi adulti.
In questo clima culturale, la prima realtà a sparire è la simbologia umana, quella con cui le creature hanno da sempre espresso insieme la loro umanità: il canto, la danza, le lacrime, la musica, i riti, le feste... Ovvero tutto quel patrimonio codificato che va sotto il nome di tradizioni e che rappresenta l’animo e l’identità più profonda di un popolo.
E dunque, che cosa ci ha restituito Roma, oltre la cronaca? Ci ha restituito la preziosità della vecchiaia capace di spendersi come un dono prezioso fino alla fine della vita. Ci ha consegnato la tenerezza di un anziano reso amabile nella sua fragilità, quando, poncho sulle spalle, spinto su una carrozzella dava luce all’uomo, sottraendolo alla sacralizzazione dell’abito e della forma. Roma ci ha restituito la morte come sorgente di eternità, quando nel cuore di tutti cresceva la convinzione che, per quell’uomo che ci lasciava, la terra non poteva e non doveva essere l’ultima parola. Roma ci ha poi restituito la speranza. Non in qualche tabellone elettronico, simbolo di una tecnica dalla marcia trionfale, ma dentro un comignolo capace di stupire il mondo con il colore dei suoi fumi. La speranza come il camino di una casa, radunata intorno al fuoco per ripararsi dal gelo, o come il filo di una nave d’altri tempi, in arrivo nel porto con il suo carico di promesse. E poi lo stupore degli eventi, capace di attrarci come formiche sulle briciole che nutrono la vita, facendoci accorrere, piangere di commozione, cantare, pregare, ringraziare, sperare... facendoci sentire umani, una cosa sola, uniti nella prova ma anche capaci ancora di gioire insieme.
Qualcosa di analogo a quanto ci fanno provare gli alpini quando portano in piazza le loro adunate. Una festa di popolo, dove smessi i panni delle preoccupazioni si scopre la forza del fare festa insieme, cantando, suonando e anche lasciandosi andare. Tanto per ricordarci che solo nella relazione sta il segreto della salvezza.

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