Il Fatto di Bruno Fasani
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L’innocenza profanata col pretesto dell’inglese

Quando la mia generazione camminava con le braghe corte e le toppe sul sedere, tante volte era il diavolo con le corna a far da deterrente alle possibili trasgressioni infantili. «Comportati bene perché viene a portarti via», ci buttavano lì con sfacciata disinvoltura...

Parole chiave: Il Fatto (417), Bruno Fasani (325)

Quando la mia generazione camminava con le braghe corte e le toppe sul sedere, tante volte era il diavolo con le corna a far da deterrente alle possibili trasgressioni infantili. «Comportati bene perché viene a portarti via», ci buttavano lì con sfacciata disinvoltura. Non so quanto questo fosse effettivamente motivo per recedere dai cattivi propositi. Sta di fatto che l’immagine di Belzebù con le corna e la forca popolava l’immaginario collettivo come il vero nemico dell’uomo. Poi, in subordine, era il lupo a smorzare le intemperanze infantili. Complice Cappuccetto Rosso e quella nonna dalla bocca grande, dove anche le migliori apparenze potevano celare la trappola letale. Seppellito il diavolo nella mitologia per creduloni e messo il lupo sotto protezione degli animalisti, il cittadino digitale si interroga su quali siano i loro surrogati. La fantasia spazia a perdifiato, ma la realtà qualche volta la supera.
L’ultimo caso ci porta a Prato. Nel film dell’orrore, i protagonisti sono un ragazzo di 13 anni e una infermiera di 35 che, a suo dire, con le lingue se la cava bene. E allora perché non mandarle a ripetizione l’imberbe adolescente, che sembra incespicare particolarmente con l’inglese? Tanto più che, a quel tempo, lei è mamma di un bambino di cinque anni e le mamme son tutte belle, come cantava Gino Latilla, vincitore a Sanremo nel ’54. Tutte belle o quasi, se non fosse che dietro le quinte ogni tanto si affaccia Medea, che proprio mamma non è.
E infatti il nostro tredicenne, che per comodità chiameremo Nino, più che la lingua di Albione sarà costretto a imparare altri linguaggi. Questa volta più duri dell’inglese. E infatti sta male, ha qualcosa che non funziona e manda segnali che i suoi genitori ben presto intercettano. Basterà un controllo sul cellulare per capire in quale abisso lo ha portato la signora esperta di lingue. “Se mi lasci dirò a tutti che il bambino è tuo figlio”. La signora parla del bambino che ha partorito cinque mesi fa e che il marito ha puntualmente riconosciuto come proprio.
Ma basta un esame del Dna per scoprire che il neonato è, in realtà, figlio di un altro bambino. Di Nino appunto. Ora, visto che la matematica non è un’opinione, a sommare i cinque mesi di vita del neonato più i nove di gestazione e andando a ritroso, si scopre che quella creatura è stata messa in cantiere da un tredicenne.
Non serve molto per immaginare in quale dramma ci siamo imbattuti. Quello di Nino, prima di tutto. Non voglio neppure pensare quale futuro lo aspetti, tormentato dai postumi di una infanzia profanata e quelli di una paternità fuori tempo e fuori luogo. E quello della famiglia della signora, che fatico a chiamare signora. Con un bambino di sette anni che probabilmente le sarà tolto, così come l’ultimo nato, che già la famiglia di Nino reclama. Bambini senza madre, per una donna che s’è dimenticata che con i bambini si deve fare soltanto la mamma.
Gli avvocati già si accapigliano per stabilire se Nino avesse 14 anni o meno, al momento del concepimento del neonato, per decidere se si tratti di violenza sessuale o meno (in Italia è legale avere un rapporto a 14 anni). La battaglia è solo agli inizi, ma a noi sembra che una cosa sia evidente: l’ipocrisia di chi non ha il coraggio di parlare di pedofilia. Con tutte le conseguenze del caso.

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