Il Fatto di Bruno Fasani
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Il pensiero del Papa (e sul Papa) letto da fariseismi di destra e sinistra

Un amico, acuto e intelligente lettore, prende spunto da un mio editoriale apparso su queste pagine, per confidarmi un suo contributo di chiarezza. In risposta al pericolo che denunciavo di un nuovo fariseismo ipocrita...

Parole chiave: Il Fatto (415), Bruno Fasani (323), Papa Francesco (112)

Un amico, acuto e intelligente lettore, prende spunto da un mio editoriale apparso su queste pagine, per confidarmi un suo contributo di chiarezza. In risposta al pericolo che denunciavo di un nuovo fariseismo ipocrita, legato ad una religiosità scarsa di fede, quella dei praticanti non credenti e quelli sempre pronti a giudicare, egli mette in guarda dal rischio speculare di una ipocrisia cosiddetta progressista: quella che finisce per dare consistenza di verità a ciò che è soltanto scorza di immagine, svuotata del Vangelo stesso. Mi spiego meglio. Giorni fa mi incrocia un conoscente di lunga data. Porta subito il discorso sul Vaticano, ma capisco che il bersaglio è un altro. «Il mio Papa è quello che non vedo in pubblico dal 2013», sentenzia perentorio. Ce l’ha con Francesco per via di quel primo «buonasera», invece del «sia lodato Gesù Cristo». Del Papa che ritorna a Santa Marta sull’autobus con i cardinali che lo hanno appena eletto, che ha le scarpe da contadino dai piedi piatti, che si porta la borsa sull’aereo, che riceve Scalfari, che va a comprarsi gli occhiali, che «chi sono io per giudicare», che salda il conto all’albergo… Insomma uno troppo di noi per essere al posto che occupa, con lo stile che esigerebbe il ruolo. E conclude: «Io sono per la verità perenne della Chiesa (non del Vangelo!, ndr) e non per la sua recita mediatica davanti al mondo». Tutto questo per dire, in estrema sintesi, che c’è chi si ferma a questa scorza (fariseismo conservatore) per demolire il Papa e chi (fariseo dall’altra) ne fa motivo per venderlo mediaticamente come rivoluzionario, banalizzando la profondità del Vangelo dentro l’originalità dei gesti.
Credo che la polarizzazione di queste due letture così divergenti nelle conclusioni, ma così omologhe nei presupposti formali anche dentro la Chiesa, siano figlie di due cause precise. La prima la vedo in una lettura sempre più partitica che si fa del magistero ecclesiale. Questo vuol dire che anche tra i cattolici, il confronto tra ideologia e fede rischia di consegnare il trofeo alla prima, sacrificando la seconda. E non è il caso di scomodare i nostri politici, con le loro truppe, pronti a bacchettare il Papa se dice cose discordanti dai loro proclami, quando perfino il vescovo Viganò ha fatto due mesi di novena perché venisse riconfermato Trump.
Una seconda ragione sta nel fatto che nella Chiesa manca probabilmente quella consuetudine a mediare il magistero del Papa, attraverso incontri e approfondimenti che aiutino a decifrarlo meglio.  Troppa carta da leggere, si dirà. E in parte è anche vero. Ma non certo per Francesco, che ha il dono della essenzialità e soprattutto quello di parlare un linguaggio accessibile a tutte le culture. Il fatto è che oggi è entrata nella società, Chiesa compresa, l’idea che la conoscenza sia identificabile con l’informazione. La quale è sì importante, ma quasi sempre è interpretazione libera e spesso arbitraria.
Mi chiedo, ad esempio, quale percorso abbia fatto nelle omelie domenicali e nelle riflessioni parrocchiali l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, in cui papa Francesco si interroga sulla capacità della Chiesa di farsi ascoltare dagli uomini di questo tempo. La provoca sulla sua capacità di attrarre, di affascinare, di far capire alla gente cosa vuol dire salvare l’uomo. Si tratta di una apertura alla Storia, chiudendo per sempre con i regimi di cristianità, a favore di una Chiesa missionaria, che attraversa le strade nel nome della misericordia, nuova nella capacità di ascolto, per tornare a seminare il Vangelo nel cuore dell’uomo. Evitando di cristallizzarlo in una dottrina, incapace di raggiungere i figli di Dio dentro storie sempre nuove.

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