Il Fatto di Bruno Fasani
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I tatuaggi, manifesto di chi mostra il proprio individualismo

“La nudità è scomparsa, parlano solo i tatuaggi”. Mi scappa l’occhio sul titolo di un articolo di giornale e mi ci fiondo dentro. Lo confesso, non ci avevo mai pensato...

Parole chiave: Il Fatto (416), Bruno Fasani (324), Tatuaggi (2)

“La nudità è scomparsa, parlano solo i tatuaggi”. Mi scappa l’occhio sul titolo di un articolo di giornale e mi ci fiondo dentro. Lo confesso, non ci avevo mai pensato. Probabilmente perché, come tutti i boomer (ossia coloro che sono cresciuti negli anni del boom economico del Dopoguerra) sono figlio di categorie culturali, che hanno sempre considerato la nudità come la forma più alta della seduzione e della provocazione. Ma ora non è più così. Almeno così si dice.
È vero che nei media digitali esiste una valanga di carne da macello. Ma quella è solo offesa al buon gusto e roba per palati non certo da Masterchef. Come i pullman di prostitute promessi dal presidente di una squadra di Serie A, in caso di vittoria in campionato. E considerate le botte nei denti rifilate alla Juventus, c’è da coltivare qualche preoccupazione.
Che la pornografia dilaghi è uno dei fenomeni più inquietanti. Non soltanto perché distrugge la capacità relazionale affettiva e l’educazione ai sentimenti delle nuove generazioni, ma anche quella delle generazioni più ad ovest della vita, quando l’affettività avrebbe bisogno d’essere gestita con la saggezza e l’equilibrio che si presume siano caratteristiche delle persone anziane. Del resto lo ha ricordato anche papa Francesco, mettendo in guardia i membri della Chiesa dal consumo di questa droga dei sentimenti.
Ma torniamo alla nudità. Si dice che, per la prima volta nella storia, il suo linguaggio sia stato sostituito da quello dei tatuaggi. Fenomeno che non è più sufficiente definire una moda, come tutte le mode destinata ad essere passeggera e quindi superabile. Il tatuaggio è diventato piuttosto il manifesto di un sentire che diventa una coscienza nuova. Libera, soggettiva individualista.
Lì, sulla pelle, è il proprio mondo interiore che si racconta. Un nome, una data, un aforisma cui ispirarsi, un amore iniziato, un figlio da portare nel cuore, un sogno, una vittoria, un sogno da coltivare… non sono soltanto espedienti estetici con cui decorare il proprio corpo. Sono piuttosto il manifesto dei propri ideali, delle aspettative di riferimento, delle cose da considerare prioritarie in un progetto di vita. È come se le nuove generazioni avessero deciso di prendere la giacca della coscienza per rovesciarla dalla parte della fodera, facendo saltare tutte le convenzioni sociali, le norme codificate, i principi morali. Mostrando al mondo il proprio corpo tatuato, e non più nella sua nudità, è come se ognuno decidesse di far conoscere l’originalità del proprio sentire e dei principi cui ha deciso di ispirare il proprio vissuto.
Per chi, come me, cresciuto nella convinzione che debba essere la coscienza interiore a far da motore dell’agire e a metter in comunione di ideali con gli altri, la generazione dei tatuati mette in piazza convinzioni e sentimenti, lasciando intendere che è la libertà e l’originalità del proprio sentire l’unico criterio ispiratore. Libero e individualista.
C’è chi sostiene che questa emotività scritta sulla pelle sia anche la matrice di quel populismo diffuso, che rivendica libertà di fare ciò che meglio aggrada, assecondato da certa politica, a tutto disposta, tranne che a dire dei no. La provocazione si fa forte ed urgente. Soprattutto considerando che è dal cuore che dovrebbe fiorire la forza delle scelte. Almeno, così crediamo.

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