Editoriale
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Insieme per sconfiggere la paura

È tutto vero, purtroppo. Dopo la fase comprensibilmente emotiva segnata dallo sgomento e da quella sorta di incredulità che è forse una forma di autodifesa e che ha portato le persone a rimanere incollate alla televisione per seguire gli speciali e le dirette da Parigi in cui venivano riportate notizie in continuazione sui numeri di vittime, di feriti, sulle testimonianze di chi è sopravvissuto agli attentati e sui risultati delle indagini, arriva il momento in cui prendiamo coscienza della realtà, triste ed ineluttabile: la guerra è entrata in casa nostra...

Parole chiave: Editoriale (380), Stefano Origano (141), Parigi (4), Guerra (41)

È tutto vero, purtroppo. Dopo la fase comprensibilmente emotiva segnata dallo sgomento e da quella sorta di incredulità che è forse una forma di autodifesa e che ha portato le persone a rimanere incollate alla televisione per seguire gli speciali e le dirette da Parigi in cui venivano riportate notizie in continuazione sui numeri di vittime, di feriti, sulle testimonianze di chi è sopravvissuto agli attentati e sui risultati delle indagini, arriva il momento in cui prendiamo coscienza della realtà, triste ed ineluttabile: la guerra è entrata in casa nostra. Lo choc è violento come uno tsunami e ha il potere di incrinare anche le poche certezze che ancora ci fanno da stampella.
Dopo qualche giorno ci interroghiamo un po’ più riflessivamente sul senso dell’accaduto e sul futuro che ci attende: “Cosa facciamo?”. In questa domanda è racchiuso tutto il senso di impotenza, di impreparazione e anche il rammarico per ciò che si poteva fare in passato e che è stato colpevolmente trascurato. Ma adesso si può ancora agire o dobbiamo rassegnarci a convivere con una minaccia che sembra nascondersi ovunque? E le nostre comunità, le parrocchie, i parroci e i semplici fedeli cosa possono fare? Mentre i capi delle nazioni occidentali si stanno coalizzando contro il califfato facendo l’unica cosa che sono abituati a fare in questi casi, cioè i bombardamenti, i semplici cittadini rischiano di sentirsi in balia degli eventi con la speranza che il prossimo attentato non avvenga nelle proprie piazze. Intanto pensano di rinunciare alla normale quotidianità come partecipare a uno spettacolo o a un evento sportivo, oppure andare in un centro commerciale.
A livello istituzionale ognuno attende che gli altri prendano le distanze dal terrorismo con dichiarazioni ufficiali, ma a pochi è venuto in mente di provare a ritrovarsi insieme: credenti cristiani, musulmani, o di altre religioni, e anche non credenti per affermare che la democrazia è un valore che ci accomuna tutti e i principi di libertà, uguaglianza e fraternità non appartengono a una ideologia o ad una determinata visione religiosa o laica, ma sono patrimonio comune e principio di civiltà. A questo punto emergerebbe chi ci sta con i fatti, chi solo a parole e chi non ci sta affatto. Quella che oggi è oggettivamente la debolezza di pensiero e di azione potrebbe rivelarsi l’“arma” più efficace: la fragilità ci spinge naturalmente a chiedere aiuto all’altro, ad appoggiarsi a qualcuno che è ugualmente fragile, ma disponibile a collaborare. Così diventa forza sana e capace di smascherare la fragilità intrinseca di chi ostenta la propria forza tagliando le gole e mandando al massacro giovani kamikaze.
Una notizia di questi giorni mi sembra andare proprio in questa direzione. Il segretario di Stato vaticano, Piero Parolin, in un’intervista al giornale cattolico francese La Croix ha dichiarato: «Nel mondo lacerato dalla violenza, è il momento giusto per lanciare l’offensiva della misericordia, il giubileo cristiano sia aperto anche ai musulmani».
 

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